Sebbene il rapporto con la madre fosse carico di tensione,
Richard Stallman finirà per ereditare da lei un importante
tratto caratteriale: la passione per le posizioni politiche
progressiste.
Si tratta però di una caratteristica che impiegherà
svariati decenni per emergere in superficie. Durante i primi anni
della sua vita, Stallman si trovò in quello che oggi ammette
essere un “vuoto politico”[15]. Come la
maggioranza degli americani all’epoca di Eisenhower, la
famiglia Stallman trascorse gli anni ’50 cercando di
riconquistare quella normalità perduta negli anni della
guerra.
“Io e il padre di Richard ci consideravamo democratici
ma senza spingerci oltre”, spiega Alice Lippman, ricordando
gli anni familiari passati nel Queens. “Non
c’interessava granché la politica nazionale o
locale.”
Tutto ciò prese a cambiare, tuttavia, sul finire degli
anni ’50 quando Alice divorziò da Daniel Stallman. Il
ritorno a Manhattan fu qualcosa di più che un semplice
cambio d’indirizzo; rappresentò il sorgere di
un’identità nuova e indipendente, oltre alla dolorosa
perdita di tranquillità.
“Credo che il mio primo assaggio di attivismo politico
fu quando andai alla biblioteca pubblica del Queens e scoprii che
in tutti gli scaffali esisteva un solo volume sul
divorzio”, ricorda la Lippman. “Si respirava la forte
presenza della Chiesa Cattolica, almeno nell’area di
Elmhurst dove vivevamo noi. Direi che fosse il primo sentore di
quei poteri che controllano le nostre vite in maniera
silenziosa.”
Tornando nel quartiere in cui era cresciuta, l’Upper
West Side di Manhattan, rimase assai colpita dai cambiamenti
avvenuti da quando se ne era andata, poco più di dieci anni
prima, per frequentare l’Hunter College. La pressante
domanda del dopoguerra per nuove abitazioni aveva trasformato il
quartiere in un campo di battaglia politico. Da una parte
c’erano consiglieri comunali e imprenditori che spingevano
per lo sviluppo edilizio nella speranza di poter ricostruire gran
parte dei vecchi edifici ove alloggiare il crescente numero di
impiegati che inondavano la città. Sul fronte opposto
stavano invece gli inquilini irlandesi e portoricani meno
abbienti, i quali avevano scelto quel quartiere proprio per via
degli affitti contenuti.
Inizialmente Alice Lippman non sapeva bene in quale delle due
fazioni riconoscersi. Come nuovo residente aveva certamente
bisogno di un alloggio moderno. Come madre sola dal basso
reddito, tuttavia, condivideva le preoccupazioni dei residenti
più poveri rispetto al crescente numero di progetti edilizi
mirati principalmente a residenti benestanti. Indignata,
cominciò a cercare i modi adatti per combattere quella
macchina politica che stava cercando di trasformare il suo
quartiere in un duplicato dell’Upper East Side.
Fu così che nel 1958 visitò per la prima volta la
sezione locale del Partito Democratico. Cercando un asilo nido
dove portare il figlio mentre lavorava, era rimasta terrificata
dalle condizioni riscontrate in uno dei centri gestiti dalla
municipalità per i residenti dal basso reddito. “Tutto
quello che ricordo è l’odore di latte rancido, le
stanze buie, la scarsità di cibo. Avevo insegnato in asili
nido privati e c’era una differenza enorme. Demmo appena
un’occhiata al posto e ce ne andammo. Ero
scandalizzata.”
Purtroppo la visita a quella sezione di partito si rivelò
deludente. Descrivendola come “la proverbiale stanza del
fumo”, sostiene di essersi resa conto per la prima volta
come fosse proprio la corruzione esistente all’interno del
partito il motivo principale dell’ostilità, a malapena
celata, delle autorità cittadine nei confronti dei residenti
meno abbienti. Senza mai tornare in sezione, decise invece di
aggregarsi ad uno dei numerosi gruppi la cui attività mirava
a riformare il Partito Democratico onde liberarsi delle ultime
vestigia della “Tammany Hall Machine”[16].
Riuniti sotto il Woodrow Wilson/FDR Reform Democratic Club,
Lippman e gli altri attivisti iniziarono cosi a partecipare alle
riunioni del consiglio comunale sullo sviluppo edilizio,
chiedendo di poter avere voce in capitolo.
“Nostro obiettivo primario era l’opposizione a
Tammany Hall, Carmine DeSapio e i loro compari”[17]
ricorda Lippman. “Io fungevo da rappresentante presso il
consiglio comunale ed ero molto coinvolta nella creazione di un
progetto di rinnovo urbanistico sostenibile che andasse oltre la
semplice aggiunta di alloggi di lusso nel quartiere.”
Un coinvolgimento che nei successivi anni ’60
sfociò in un attivismo politico di portata assai maggiore.
Nel 1965 Lippman lavorò alacremente nelle campagne
elettorali per il sostegno a candidati come William Fitts Ryan,
parlamentare democratico eletto con l’aiuto dei gruppi di
riforma e uno dei primi deputati statunitensi a intervenire
pubblicamente contro la guerra in Vietnam.
Non ci volle molto perché anche Lippman manifestasse la
propria opposizione all’intervento USA in Indocina.
“Mi schierai contro la guerra in Vietnam fin dal momento in
cui Kennedy inviò le truppe”, ricorda. “Leggevo
gli articoli di reporter e giornalisti inviati a seguire le prime
fasi del conflitto. Ritenevo del tutto azzeccate le loro
previsioni secondo cui si sarebbe trasformato in un grande
pasticcio.”
Un clima di dissenso che si respirava anche nella famiglia
Stallman-Lippman. Nel 1967 Alice si risposò. Il suo nuovo
marito, Maurice Lippman, maggiore della Air National Guard,
rassegnò le sue dimissioni per dimostrare la sua opposizione
alla guerra. Il figlio di Maurice Lippman, Andrew, studiava al
MIT e in quanto studente poteva rinviare temporaneamente il
servizio militare. Tuttavia la minaccia che tale rinvio potesse
essere sospeso, come alla fine accadde, rese ancora più
immediato il rischio di un ulteriore coinvolgimento bellico da
parte degli Stati Uniti. C’era infine Richard che, sebbene
più giovane, aveva davanti a sé la prospettiva di
optare tra Vietnam o Canada quando la guerra continuò negli
anni ’70.
“Il Vietnam era una faccenda importante in
famiglia”, sostiene la Lippman. “Ne parlavamo in
continuazione: cosa avremmo fatto nel caso la guerra fosse
proseguita, quali i passi migliori per Richard o per il
fratellastro se fossero stati chiamati alle armi. Eravamo davvero
convinti fosse qualcosa d’immorale.”
Per Stallman, la guerra del Vietnam suscitava un miscuglio
complesso di emozioni: confusione, orrore e in ultima analisi una
profonda sensazione di impotenza politica. Nei panni di un
ragazzo appena in grado di far fronte all’universo
leggermente autoritario della scuola privata, Stallman tremava al
solo pensiero di dover entrare in un campo di addestramento
dell’esercito.
“Ero devastato dalla paura, ma non riuscivo a immaginare
cosa fare e non avevo il coraggio di unirmi alle dimostrazioni di
protesta”, rammenta Stallman, il cui compleanno del 18
marzo lo pose paurosamente a rischio nella lotteria per la
chiamata di leva, quando nel 1971 il governo decise di cancellare
i rinvii per motivi di studio. “Non mi vedevo scappar via
in Canada o in Svezia. Ero terrorizzato dall’idea di
dovermi alzare e fare qualcosa in prima persona. Avrei mai potuto
farcela? Non sapevo vivere e mantenermi da solo. Non ero il tipo
che si sente a proprio agio in una situazione simile.”
Quando gli altri della famiglia esprimevano le proprie
opinioni in pubblico, Stallman ne rimaneva assai colpito ma
provava anche vergogna. Ricordando un adesivo sul parafango della
macchina del padre che equiparava il massacro di My Lai alle
atrocità naziste della Seconda Guerra Mondiale, dice di
essersi sentito “eccitato” per quel gesto
d’oltraggio del padre. “Lo ammiravo per
quell’azione”, dice Stallman. “Ma io non
riuscivo a far nulla. Avevo paura che il Moloch della leva stesse
per annientarmi.”
Nonostante queste descrizioni sull’incapacità
personale a prendere posizione contengano un certa dose di
rimpianto nostalgico, Stallman sostiene che alla fine rimase
deluso dal tono e dalla direzione presi dal movimento contro la
guerra. Al pari di altri studenti dello Science Honors Program,
considerò quelle dimostrazioni di protesta nei weekend alla
Columbia poco più di un distratto spettacolo[18]. In
conclusione, ribadisce Stallman, divenne impossibile distinguere
tra le forze irrazionali che guidavano il movimento contro la
guerra e quelle, altrettanto irrazionali, alla guida del resto
della cultura giovanile. Anziché adorare i Beatles,
improvvisamente le coetanee di Stallman idolatravano dei tipi
sputafuoco quali Abbie Hoffman e Jerry Rubin. Per un ragazzo
già pieno di problemi nel comprendere i coetanei, slogan
disimpegnati come “fate l’amore non la guerra”,
contenevano messaggi ambigui. Non soltanto ciò serviva a
rammentare che Stallman, l’asociale dai capelli a spazzola
che odiava il rock’n’roll, detestava le droghe e non
partecipava alle dimostrazioni nel campus, non comprendeva cosa
stesse accadendo a livello politico; non lo “capiva”
neppure sessualmente.
“La controcultura non mi ha mai colpito
granché”, ammette oggi Stallman. “Quella musica
non m’interessava, tantomeno le droghe. Avevo paura di
quelle sostanze. Non mi andavano giù soprattutto
l’anti-intellettualismo e i pregiudizi contro la
tecnologia. In fondo, io amavo il computer. E non mi piaceva lo
sciocco anti-americanismo in cui mi capitava spesso
d’imbattermi. Qualcuno pensava in maniera talmente
semplicistica che quell’opposizione alla condotta
statunitense nella guerra in Vietnam dovesse comportare
l’automatico appoggio al Vietnam del Nord. Suppongo che
quella gente non riuscisse a immaginare una situazione più
complessa.”
Simili commenti servono ad alleviare la sensazione di
timidezza, ponendo altresì in evidenza un tratto che
diverrà la chiave della maturazione politica di Stallman.
Per quest’ultimo, la dimestichezza politica
dev’essere direttamente proporzionale a quella personale.
Nel 1970 Stallman aveva confidenza con pochi elementi oltre il
regno della matematica e della scienza. Ciò nonostante, la
familiarità con i numeri gli offrì le basi per
esaminare il movimento contro la guerra in termini puramente
logici. Lungo questo processo, Stallman trovò gli strumenti
della logica particolarmente adeguati. Per quanto contrario
all’intervento bellico in Vietnam, non vedeva motivo per
rifiutare la guerra come mezzo atto a difendere la libertà o
a correggere le ingiustizie. Tuttavia, anziché allargare il
divario tra lui e i colleghi, Stallman decise di tenere per
sé questo tipo di analisi.
Nel 1970, con la partenza per Harvard, si lasciò alle
spalle le quotidiane conversazioni a cena sulla politica e sulla
guerra in Vietnam. Col senno di poi Stallman descrive il
passaggio dall’appartamento di sua madre a Manhattan alla
vita nel dormitorio di Cambridge come una “fuga”. Ma
gli amici che lo seguirono in quel passaggio notarono ben poco a
sostegno della tesi per cui si trattasse di un’esperienza
liberatoria.
“I suoi primi tempi ad Harvard sembravano piuttosto
infelici”, ricorda Dan Chess, compagno di classe nello
Science Honors Program e anch’egli matricola ad Harvard.
“Era evidente come l’interazione umana gli risultasse
davvero difficile, ma in quell’ambiente non c’era
modo di evitarla. Harvard era un luogo intensamente
sociale.”
Per facilitare la transizione, Stallman fece nuovamente
affidamento sui suoi punti di forza, scienza e matematica. Come
molti studenti provenienti dallo Science Honors Program, anche
Stallman superò facilmente l’esame di ammissione per
Math 55, il corso riservato alle matricole dotate in matematica,
diventato leggendario per la sua difficoltà. Al suo interno,
quanti provenivano dal programma della Columbia University
formarono subito un'unità di ferro. “Eravamo la mafia
della matematica”, dice Dan Chess con una risata.
“Harvard valeva ben poco, almeno in paragone allo Science
Honors Program.”
Prima di guadagnarsi il diritto a vantarsene, però,
Stallman, Chess e gli ex studenti di quel programma, dovevano
superare il corso di Math 55. Quest’ultimo condensava
quattro anni di lezioni in appena due semestri, e mirava soltanto
ai veri adepti. “Era un corso davvero incredibile”,
sostiene David Harbater, ex aderente alla “mafia della
matematica” e oggi professore della stessa materia presso
la University of Pennsylvania. “È plausibile sostenere
che non sia mai esistito un corso per matricole talmente intenso
e avanzato. Quel che dicevo agli altri giusto per dare loro
un’idea, era che tra le altre cose nel secondo trimestre
discutevamo la geometria differenziale della varietà di
Banach. A quel punto strabuzzavano gli occhi, perché
generalmente tale geometria compariva dopo il secondo
anno.”
Partito con 75 studenti, il corso si ridusse rapidamente a 20
nel secondo semestre. Di costoro, aggiunge Harbater,
“soltanto 10 sapevano veramente cosa stavano
facendo”. Otto di questi sarebbero divenuti a loro volta
professori di matematica e uno avrebbe insegnato fisica.
“L’ultimo rimasto”, sottolinea Harbater,
“era Richard Stallman.”
Seth Breidbart, studente di Math 55, ricorda come anche in
quell’ambito Stallman riuscisse a distinguersi dagli
altri.
“Era pignolo, ma in modo strano”, dice Breidbart.
“In matematica c’è una tecnica standard che
tutti sbagliano. Si tratta di un uso errato della notazione,
quando bisogna definire una funzione e quello che in realtà
si fa è definire prima la funzione e poi dimostrare che
è definita correttamente. Solo che, la prima voltà che
si trovò a presentarla, egli definì una relazione
dimostrando poi che è una funzione. È la stessa
identica dimostrazione, ma in cui Stallman aveva utilizzato la
terminologia corretta, cosa che non aveva fatto nessun altro.
Questo per dire come era fatto.”
Fu durante il corso di Math 55 che Richard Stallman
iniziò a coltivare la reputazione di studente brillante.
Breidbart si dichiara d’accordo, ma secondo Chess, le cui
ambizioni competitive rifiutarono di cedere il passo, Stallman
non venne riconosciuto come il migliore in matematica fino
all’anno successivo. “Avvenne durante il corso di
Analisi Matematica”, spiega Chess, oggi professore di
matematica presso l’Hunter College. “Ricordo una
dimostrazione sui divisori a valori complessi dove Richard se ne
uscì con un’idea che praticamente era una metafora del
calcolo delle varianti. Era la prima volta che vedevo qualcuno
risolvere un problema in maniera così brillante e
originale.”
Per Chess fu un momento difficile. Come un uccello che,
volando, finisce contro il vetro di una finestra lucida, gli ci
volle un po’ per rendersi conto che questo livello di
intuito era semplicemente fuori dalla sua portata.
“Questo per quanto riguarda la matematica”,
sostiene Chess. “Non occorre un matematico di massimo grado
per riconoscere un talento eccezionale. Ero cosciente di aver
raggiunto un ottimo livello, ma sapevo anche di non potermi
considerare un matematico eccelso.”
Per Stallman, i successi scolastici erano inversamente
proporzionali a quelli nell’arena sociale. Perfino quando
gli aderenti alla mafia della matematica si riunivano per
risolvere insieme i problemi, Stallman preferiva lavorare da
solo. Lo stesso dicasi per la sistemazione dell’alloggio.
Nella richiesta per una stanza ad Harvard, non mancò di
specificare le proprie esigenze. “Dissi che preferivo stare
con qualcuno invisibile, inascoltabile, intangibile.” In un
evento di rara perspicacia burocratica, i responsabili
amministrativi accettarono quella richiesta, assegnando a
Stallman una stanza da solo per quell’anno da
matricola.
Breidbart, unico aderente alla mafia della matematica che
alloggiasse nel dormitorio oltre a Stallman, segnala che
quest’ultimo imparò ad interagire con gli altri
studenti in maniera graduale ma sicura. Egli ricorda come gli
altri residenti del dormitorio, colpiti dall’acume logico
di Richard, presero ad apprezzare i suoi suggerimenti ogni volta
che si dava vita a qualche tipo di discussione intellettuale in
mensa o nelle sale comuni.
“Tenevamo le solite chiacchierate da bulli per risolvere
i problemi del mondo o per capire quale sarebbe stato il
risultato di una certa premessa”, rammenta Breidbart.
“Supponiamo che qualcuno abbia scoperto il siero
dell’immortalità. Cosa faresti? Quali le conseguenze
politiche? Fornendolo a tutti, il mondo diventerebbe
sovrappopolato, e moriremmo tutti. Se si impongono delle
limitazioni, stabilendo ad esempio di darlo a chi è vivo
oggi ma non ai propri figli, allora finiremmo per creare un ceto
di persone inferiori, quelle private dell’accesso al siero.
Richard era capace, in modo superiore agli altri, di immaginare
le circostanze imprevedibili susseguenti a questo tipo di
scenari.”
Stallman ricorda assai vividamente quelle discussioni.
“Ero sempre a favore dell’immortalità”,
sostiene. “Rimanevo colpito dal fatto che la maggior parte
delle persone la considerasse una cosa negativa. In quale altro
modo potremmo osservare i cambiamenti del mondo da qui a 200
anni?”
Pur affermandosi come eccelso matematico e sagace oratore,
evitava le competizioni pubbliche che avrebbero sancito la sua
brillante reputazione. In conclusione di quell’anno da
matricola ad Harvard, Breidbart ricorda come Stallman schivò
ripetutamente l’esame Putnam, un prestigioso test riservato
agli studenti di matematica in USA e Canada. Oltre a fornire loro
la possibilità di misurare le proprie conoscenze rispetto ad
altri coetanei, quell’esame era considerato uno strumento
per ottenere l’assunzione presso i vari dipartimenti
accademici di matematica. Stando alle leggende del campus, il
primo classificato avrebbe automaticamente ottenuto una borsa di
studio per proseguire gli studi presso un istituto di propria
scelta, incluso Harvard.
Come per il corso di Math 55, l’esame Putnam era
brutalmente basato sulle capacità mentali. La sessione di
sei ore divisa in due parti, sembrava esplicitamente progettata
per eliminare ogni dubbio sui più bravi. Breidbart, veterano
sia dello Science Honors Program sia del corso di Math 55, lo
descrive tranquillamente come l’esame più difficile
che abbia mai sostenuto. “Giusto per avere un’idea
del livello di difficoltà”, spiega, “il
punteggio massimo era 120, e nel primo anno il mio risultò
intorno a 30, dimostrandosi comunque sufficiente per farmi
piazzare al 101° posto nella classifica
nazionale.”
Sorpreso del fatto che Stallman, il migliore della classe,
avesse glissato su quel test, Breidbart ricorda che un giorno lui
e gli altri lo costrinsero in un angolo e gli chiesero una
spiegazione: “Replicò che temeva di non fare bella
figura.”
Allora Breidbart e gli altri buttarono giù al volo alcuni
problemi che ricordavano a memoria da quell’esame e li
passarono a Stallman. “Li risolse tutti”, sostiene
Breidbart, “portandomi a concludere che la sua idea di non
fare bella figura significasse arrivare secondo oppure commettere
qualche grossolano errore.”
Stallman rammenta l’episodio con qualche differenza.
“Ricordo che effettivamente mi passarono dei problemi ed
è possibile che li abbia risolti, ma sono quasi certo che
non ce la feci con tutti”, sostiene. In ogni caso, Stallman
è d’accordo con Breidbart sul fatto che non volle
sostenere quell’esame essenzialmente per paura. Nonostante
l’evidente volontà di mettere in luce la debolezza
intellettuale di compagni e professori nel corso delle lezioni,
Stallman odiava l’idea della competizione testa a
testa.
“È lo stesso motivo per cui non mi è mai
piaciuto giocare a scacchi”, aggiunge Stallman. “Ogni
volta che ci provavo, ero talmente consumato dal terrore di
sbagliare una sola mossa che cominciavo a fare stupidi errori fin
dall’inizio. La paura divenne così una sorta di
profezia autoreferenziale.”
Se poi la stessa paura vada ritenuta responsabile della
decisione di scansare la carriera di matematico, è questione
opinabile. Verso la conclusione del suo anno da matricola,
Stallman scoprì altri interessi che finirono per
allontanarlo da quell’ambiente. La programmazione al
computer, il cui fascino latente lo aveva accompagnato negli anni
delle medie, andava trasformandosi in una vera e propria
passione. Laddove gli altri studenti di matematica trovavano
occasionale rifugio in materie quali arte e storia, Stallman si
rintanava nei laboratori d’informatica.
Il suo primo assaggio di programmazione, all’IBM
Scientific Center di New York, ne aveva stimolato il desiderio di
saperne di più. “Mentre si chiudeva il mio primo anno
ad Harvard, cominciai a sentirmi abbastanza coraggioso da
visitare i laboratori d’informatica per vedere cosa
avevano. Chiesi in prestito copie di qualunque manuale
disponibile.”
Portatosi a casa quei manuali, Stallman avrebbe poi esaminato
le specifiche delle macchine, paragonandole a quelle di modelli
già conosciuti e buttando giù qualche programma
sperimentale, che avrebbe infine riportato al laboratorio insieme
ai manuali presi in prestito. Anche se qualche assistente
storceva il naso all’idea che un ragazzo qualunque potesse
lavorare sulle macchine interne, gran parte di loro finiva per
riconoscerne le competenze tecniche, consentendogli così di
far girare sul computer i programmi che aveva creato.
Un giorno, ormai al termine dell’anno da matricola,
Stallman venne a sapere dell’esistenza di un laboratorio
speciale nei pressi del Massachussetts Institute of Technology
(MIT). Si trovava al nono piano di un edificio appena fuori dal
campus, su Tech Square, nel complesso appena costruito e
riservato alla ricerca avanzata. Secondo le voci che giravano,
quel laboratorio era dedicato alle tecniche d’avanguardia
nel campo dell’intelligenza artificiale e vantava la
presenza di macchine e software tra i più sofisticati.
Intrigato, Stallman decise di farvi un salto.
Il percorso era breve, circa tre chilometri a piedi, meno di
dieci minuti in tram, ma come Stallman avrebbe scoperto quanto
prima, il MIT e Harvard incarnano i poli opposti di uno stesso
pianeta. Con il labirinto di corridoi che univa una serie di
edifici interconnessi, il campus del MIT presentava
un’estetica minimalista rispetto allo spazioso villaggio
coloniale di Harvard. Analoga l’impressione riguardo agli
iscritti del MIT, una variegata raccolta di studenti un po’
svitati, noti più per la predilezione alle birichinate che
per la brillante carriera politica.
Contrasti che non mancavano di estendersi al laboratorio di
intelligenza artificiale. Diversamente dal laboratorio
informatico di Harvard, qui non esistevano laureandi-custodi,
nessuna lista d’attesa per l’acceso ai terminali,
nessuna esplicita atmosfera di “si guarda ma non si
tocca”. Stallman trovò soltanto una serie di terminali
aperti e braccia robot, probabilmente serviti a qualche
esperimento di intelligenza artificiale.
Nonostante le voci dicessero che chiunque poteva sedersi
davanti a un computer, Stallman decise di seguire il solito piano
iniziale. Quando incontrò uno degli addetti, chiese se non
avesse per caso qualche manuale in più da prestare a uno
studente curioso. “Ce n’era qualcuno, ma un sacco di
cose non erano documentate”, ricorda Stallman. “In
fondo erano degli hacker.”
Stallman se andò con qualcosa di meglio di un semplice
manuale: un lavoro. Anche se non rammenta bene la natura di quel
primo progetto, ricorda di esser tornato al laboratorio la
settimana successiva, di essersi seduto davanti a un terminale
libero e aver iniziato a scrivere un programma.
Ripensando a quell’evento, Stallman non vede nulla di
insolito nel fatto che al laboratorio accettassero il primo
venuto. “All’epoca si faceva così”, dice.
“E funziona anche adesso. Se mi accorgo che qualcuno è
bravo, lo ingaggio appena lo incontro. Perché aspettare?
Sbaglia davvero chi si ostina ad attenersi sempre a rigide
procedure burocratiche. Se una persona è in gamba, non
è necessario che segua un processo lungo e dettagliato prima
di essere assunto; meglio metterlo subito davanti a un computer a
scrivere codice.”
Per avere un assaggio di rigidità burocratica era
sufficiente che Stallman visitasse i laboratori informatici di
Harvard. Qui l’accesso ai terminali era subordinato al
grado accademico. In quanto studente non ancora laureato,
generalmente Stallman doveva mettersi in lista e attendere fino a
mezzanotte, quando la maggior parte dei professori e dei laureati
finivano i compiti giornalieri. Non era difficile starsene ad
aspettare, ma quanto meno frustrante. Dover attendere un
terminale pubblico sapendo che nel frattempo una mezza dozzina di
macchine ugualmente utilizzabili se ne stavano spente negli
uffici chiusi dei professori, pareva il massimo
dell’illogicità. Nonostante Stallman visitasse
occasionalmente i laboratori informatici di Harvard, preferiva le
procedure più egualitarie in vigore in quello di
intelligenza artificiale al MIT. “Era una boccata
d’aria fresca”, aggiunge. “Qui la gente si
preoccupava più del lavoro che della posizione
accademica.”
Stallman imparò rapidamente che in quell’ambito la
pratica del “chi prima arriva, meglio alloggia” si
doveva in gran parte agli sforzi di un pugno di persone. Molti
erano reduci dall’epoca del progetto MAC, il programma di
ricerca sostenuto dal Ministero della Difesa che aveva dato i
natali ai primi sistemi operativi a condivisione di tempo
(time-sharing). Alcuni erano già leggende del mondo
informatico. C’era Richard Greenblatt, l’esperto
locale di Lisp e autore di MacHack, programma per giocare a
scacchi che una volta aveva umiliato Hubert Dreyfus, critico
feroce dell’intelligenza artificiale. C’era Gerald
Sussman, creatore originale del programma per funzioni robotiche
denominato HACKER. E ancora, Bill Gosper, il mago della
matematica già nel bel mezzo di un lavoro di hacking durato
18 mesi, messo in moto dalle implicazioni filosofiche del
computer game LIFE[19].
Gli aderenti a questo gruppo ristretto si autodefinivano
“hacker”. Col passare del tempo allargarono tale
definizione allo stesso Stallman. In questo passaggo, egli venne
messo al corrente delle tradizioni morali condensate nella
“etica hacker”. Essere un hacker significava qualcosa
di più che sviluppare semplicemente dei programmi,
imparò presto Stallman. Voleva dire scrivere il miglior
codice possibile e stare seduti davanti a un terminale anche per
36 ore consecutive, se per riuscirci occorreva tutto quel tempo.
Fatto ancor più importante, significava aver continuamente
accesso alle migliori macchine esistenti e alle informazioni
più utili. Gli hacker dicevano apertamente di voler cambiare
il mondo tramite il software, e Stallman imparò che
l’hacker istintivo supera ogni ostacolo pur di raggiungere
un tale nobile obiettivo. Tra questi ostacoli, i maggiori erano
rappresentati dal software scadente, dalla burocrazia accademica
e dai comportamenti egoistici.
Stallman venne anche a conoscenza del folklore tramandato nel
tempo, i racconti di come certi hacker, imbattutisi in qualche
intoppo, fossero riusciti a superarlo in maniera creativa.
Apprese il cosiddetto “lock hacking”, l’arte di
irrompere negli uffici dei professori per “liberare”
i terminali sequestrati. Al contrario della viziata controparte
di Harvard, i membri di facoltà al MIT avevano meglio da
fare che trattare i computer del laboratorio di intelligenza
artificiale come proprietà privata. Se uno di loro aveva
commesso l’errore di chiudere in una stanza un terminale
per l’intera nottata, gli hacker erano lesti a correggerne
lo sbaglio. Altrettanto rapidamente mandavano un chiaro messaggio
nel caso l’errore si fosse ripetuto. “Mi venne
mostrato un carrello con sopra un pesante cilindro di metallo,
usato per rompere la porta dell’ufficio di un
professore”[20], ricorda Stallman.
Simili metodi, per quanto privi di finezza, puntavano a un
obiettivo preciso. Nonostante professori e amministratori del
laboratorio fossero in numero doppio rispetto agli hacker, era
l’etica di questi ultimi a prevalere. Non a caso quando
arrivò Stallman, gli hacker e gli amministratori del
laboratorio avevano sviluppato una sorta di relazione simbiotica.
In cambio di attività quali la riparazione delle macchine e
il corretto funzionamento del software, gli hacker si erano
guadagnati il diritto a lavorare sui progetti preferiti. Che
spesso riguardavano l’ulteriore miglioramento delle
macchine e dei programmi. Come uno scooter per un adolescente, la
miglior forma di divertimento per la maggioranza degli hacker
consisteva nel continuare a smanettare con i computer.
Un’attività questa che trova piena rispondenza nel
sistema operativo su cui girava il mini-computer centrale del
laboratorio, il PDP-6. Soprannominato ITS, acronimo per
Incompatible Time Sharing System, questo sistema operativo
incorporava l’etica hacker nel cuore del suo stesso
progetto. Gli hacker lo avevano realizzato come protesta nei
confronti del sistema operativo originale del progetto MAC, noto
come Compatible Time Sharing System, CTSS, e anche il nome fu
scelto di conseguenza. A quel tempo gli hacker consideravano
quest’ultimo progetto troppo restrittivo, poiché
limitava le possibilità dei programmatori
nell’eventuale modifica e miglioria dell’architettura
interna. Secondo una leggenda tramandata da un hacker
all’altro, la decisione di costruire il sistema ITS aveva
anche connotazioni politiche. Al contrario del CTSS, realizzato
per la serie IBM 7094, l’ITS era stato specificamente
progettato per il PDP-6. Nel consentire agli hacker di scrivere
quei sistemi in piena autonomia, gli amministratori si erano
garantiti il fatto che solo questi ultimi erano poi in grado di
usare il PDP-6. All’interno del mondo feudale della ricerca
accademica, lo stratagemma funzionò. Nonostante il PDP-6
fosse in comproprietà con altri dipartimenti, ben presto
rimase ad esclusivo utilizzo dei ricercatori del laboratorio di
intelligenza artificiale[21].
L’ITS includeva funzioni che la maggior parte dei
sistemi operativi commerciali non avrebbe offerto per anni, tra
cui multitasking, debugging e capacità di editing a tutto
schermo. Poggiando sulle fondamenta garantite da queste
funzionalità e dal PDP-6, il laboratorio era riuscito a
dichiarare la propria indipendenza dal progetto MAC poco prima
dell’arrivo di Stallman.
In qualità di apprendista hacker, egli si appassionò
immediatamente al sistema ITS. Il sistema presentava numerose
opzioni considerate vere e proprie lezioni nello sviluppo del
software per un’apprendista come Stallman, anche se tali
opzioni erano proibitive per la gran parte dei nuovi venuti.
“L’ITS aveva un meccanismo interno molto elegante
che consentiva a un programma di esaminarne un altro”,
ricorda Stallman. “Si poteva analizzare lo stato di un
programma in modo molto pulito e dettagliato.”
Fu grazie a questa caratteristica che Stallman notò come
i programmi scritti dagli hacker elaboravano le istruzioni man
mano che queste comparivano. Un’altra funzione importante
consentiva al programma di controllo di bloccare il programma
monitorato mentre scorrevano le istruzioni. In altri sistemi
operativi ciò avrebbe prodotto semi-elaborati
incomprensibili oppure il blocco automatico del sistema.
Nell’ITS, quella procedura offriva invece
un’ulteriore possibilità di verificarne le prestazioni
passo dopo passo.
“Se davi un’istruzione tipo ‘Ferma il
processo’, il sistema si sarebbe sempre fermato nella
modalità utente. Si sarebbe bloccato tra due istruzioni di
tale modalità, e da quel momento in poi qualsiasi altro
comando sarebbe stato conseguente.” spiega Stallman.
“Se dicevi, ‘Continua il processo,’ avrebbe
proseguito in maniera appropriata. Non solo: se si modificava lo
stato del processo per poi riportarlo allo stato precedente,
tutto si sarebbe svolto in maniera coerente. Non esisteva da
nessuna parte uno stato nascosto.”
Entro la fine del 1970, l’attività di hacking al
laboratorio di intelligenza artificiale aveva assunto per
Stallman cadenza settimanale. Dal lunedì al giovedì
seguiva i suoi corsi ad Harvard. Ma non appena arrivava il
venerdì pomeriggio, eccolo prendere il tram T per recarsi
giù al MIT, dove avrebbe trascorso l’intero week-end.
Generalmente faceva coincidere il proprio arrivo con la rituale
caccia a qualcosa da mettere sotto i denti. Unirsi ad altri
cinque o sei hacker alla ricerca notturna di cibo cinese
significava saltare in una macchina scassata e attraversare
l’Harvard Bridge per raggiungere la vicina Boston. Nelle
due ore successive il gruppo avrebbe chiacchierato di tutto un
po’, dal sistema ITS alla logica interna della lingua
cinese e al relativo sistema pittografico. Dopo cena, sarebbero
tornati al MIT per lavorare al codice fino all’alba.
Per l’asociale che si univa raramente ai compagni delle
medie, si trattava di un’esperienza non certo da poco,
andarsene tutt’a un tratto in giro con persone che
condividevano la sua stessa predilezione per i computer, la
fantascienza e il cibo cinese. “Ricordo d’aver visto
molte volte l’alba tornando in macchina da
Chinatown”, disse Stallman con una punta di nostalgia 15
anni dopo, in un discorso tenuto allo Swedish Royal Technical
Institute. “L’alba era davvero un spettacolo
meraviglioso, perché è un momento così calmo della
giornata. Periodo ideale per prepararsi ad andare a letto. È
così bello camminare verso casa tra le prime luci del giorno
con gli uccelli che iniziano a cinguettare; si prova una concreta
sensazione di soddisfazione e tranquillità rispetto al
lavoro svolto durante la notte.”[22]
Continuando a frequentare quegli hacker, Stallman finì
con l’adottarne la visione del mondo. Già sostenitore
della libertà individuale, prese a infondere un senso di
responsabilità comune in ogni sua azione. Quando gli altri
violavano delle norme condivise, Stallman saltava subito su a
evidenziarlo. A un anno dalla sua prima visita, eccolo irrompere
negli uffici chiusi a chiave per recuperare i terminali
sequestrati che appartenevano all’intera comunità del
laboratorio. Nella tipica attitudine hacker, non rinunciò a
offrire i propri contributi all’arte del cosiddetto
“lock hacking” (come forzare una serratura chiusa).
Uno dei trucchi più creativi per aprire quelle porte,
comunemente attribuito a Greenblatt, consisteva nel curvare un
pezzo di fil di ferro e attaccarvi del nastro adesivo
all’estremità più lunga. Dopo aver fatto
scivolare sotto la porta il cavetto, lo si poteva ruotare in modo
che l’estremità con il nastro adesivo arrivasse a
toccare la maniglia interna. Ammesso che il nastro tenesse, un
paio di strattoni e la porta si sarebbe aperta.
Dopo averlo provato, Stallman trovò il trucchetto buono
ma inadeguato sotto alcuni punti di vista. Far aderire il nastro
al fil di ferro era piuttosto difficile, e anche riuscire a
girare la maniglia con uno strattore non era facile. Stallman
ricordò che il soffitto dei corridoi aveva dei pannelli
rimovibili. In realtà più di un hacker era ricorso allo
stratagemma del controsoffitto per penetrare negli uffici chiusi,
strategia che in genere funzionava, anche se ne uscivi coperto di
fibra di vetro.
Stallman considerò allora un approccio alternativo.
Invece di far scivolare un cavo sotto la porta, perché non
cercare di spostare uno di quei pannelli e operare dallo stipite
della porta?
Decise di provarci da solo. Anziché ricorrere al cavo
metallico, preparò un nastro magnetico lungo a forma di U,
alla cui base sistemò un ovale di nastro adesivo. Da sopra
lo stipite, fece cadere quell’aggeggio finché non
s’incastrò al di sotto del pomello. Dopo averlo
spostato in modo da far aderire il nastro adesivo al pomello
stesso, prese a tirare finché non riuscì a farlo
ruotare. Ed ecco che la porta si aprì. Stallman aveva
aggiunto un trucco nuovo all’arte del lock hacking.
“Talvolta bisognava dare un calcio alla porta dopo aver
girato la maniglia”, dice Stallman rammentando le
difficoltà del nuovo metodo. “E ci voleva un po’
di equilibrio nel tirare.”
Simili attività riflettevano la sua crescente
volontà di parlare e agire in difesa del proprio credo
politico. Lo spirito del laboratorio a sostegno dell’azione
diretta lo aveva ispirato a spezzare la timida impotenza dei suoi
anni giovanili. Forzare una porta per liberare un terminale non
era lo stesso che partecipare ad una manifestazione di dissenso,
ma risultava efficace forse più di una protesta. Risolveva
il problema di quel momento.
Negli ultimi anni trascorsi ad Harvard, Stallman prese ad
applicare anche in quell’ambito le bizzarre e irriverenti
lezioni apprese al laboratorio di intelligenza artificiale.
“Ti ha raccontato del serpente?”, mi chiede sua
madre durante un’intervista. “Insieme con il suo
compagno di stanza, avevano presentato un serpente come candidato
al consiglio studentesco. Pare che avesse ottenuto un
considerevole numero di voti.”
Stallman conferma la candidatura del serpente con alcune
precisazioni. Si trattava di elezioni limitate alla Currier
House, il dormitorio di Stallman, non per le cariche di consiglio
dell’intero campus.
Sì, il serpente ottenne un risultato significativo, in
buona parte grazie al fatto che sia il serpente sia il
proprietario condividevano il medesimo cognome. “La gente
lo votò pensando di votare per quella persona”,
precisa Stallman. “I manifesti della campagna riportavano
che il serpente avrebbe ‘strisciato’ pur di arrivare
a quella carica. Specificammo inoltre che si trattava di un
candidato ‘latitante’, perché qualche settimana
prima si era arrampicato sul muro per poi sparire nel condotto di
ventilazione e nessuno l'aveva più visto.”
La presentazione di un serpente come candidato al consiglio
del dormitorio non era altro che una delle numerose burle
collegate alle elezioni locali. In un’ulteriore
circostanza, Stallman e altri studenti proposero il figlio di un
dipendente universitario. “La sua piattaforma prevedeva il
pensionamento obbligatorio all’età di sette
anni”, ricorda Stallman.
Tuttavia simili scherzi impallidivano al confronto di quelli
analoghi organizzati nel campus del MIT. Uno dei più
riusciti riguardava la candidatura di un gatto chiamato
Woodstock, che in realtà ottenne più voti di gran parte
dei candidati umani in un’elezione che riguardava
l’intero campus. “Il numero dei voti ricevuti da
Woodstock non venne mai reso noto, li considerarono nulli”,
rammenta Stallman. “Ma l’elevata quantità di
voti nulli sembrò suggerire che in realtà avesse vinto.
Un paio d’anni dopo, il gatto venne investito da un
macchina in circostanze sospette. Nessuno è mai riuscito a
sapere se l’autista lavorasse per l’amministrazione
del MIT.” Stallman sostiene di non aver avuto nulla a che
far con la candidatura di Woodstock, “pur considerandomi un
suo ammiratore.”[23]
Al laboratorio di intelligenza artificiale, le attività
politiche di Stallman andavano assumendo connotazioni decisamente
più serie. Durante gli anni ’70, gli hacker dovevano
fronteggiare continuamente membri di facoltà e
amministratori decisi a costruire una sorta di cordone intorno
all’ITS e ai relativi progetti su misura per quegli hacker.
Uno dei primi tentativi in tal senso avvenne verso il 1975,
quando un crescente numero di professori iniziò a richiedere
un sistema di sicurezza a tutela dei dati delle ricerche. La gran
parte degli altri laboratori informatici aveva installato sistemi
analoghi sul finire degli anni ‘60, ma il laboratorio di
intelligenza artificiale, grazie all’insistenza di Stallman
e di altri hacker, rimaneva una zona franca.
Per Stallman, l’opposizione ai sistemi di sicurezza era
di natura sia pratica che etica. Da quest’ultimo punto di
vista, egli non mancava di sottolineare come l’intera arte
dell’hacking fosse basata sull’apertura e sulla
fiducia intellettuale. Rispetto al lato pratico, ribadiva come la
struttura interna dell’ITS fosse aderente a questo spirito
di apertura, e ogni tentativo di re-impostare il tutto si sarebbe
rivelata un’operazione assai complessa.
“Gli hacker cui si deve l’Incompatible Time
Sharing System si resero conto di come la protezione dei file
venisse solitamente usata dal gestore di un sistema per
guadagnare potere rispetto a tutti gli altri”, così
recita la successiva spiegazione di Stallman. “Non volevano
che qualcuno potesse arrivare a tanto, perciò decisero di
non implementare quel tipo di funzione. Come risultato, ogni qual
volta nel sistema si verificavano dei problemi era sempre
possibile risolverli.”[24]
Fu grazie a questo tipo di vigilanza che gli hacker
consentirono alle macchine del laboratorio di intelligenza
artificiale di rimanere immuni da ogni funzione di sicurezza. Al
contrario, però, di quanto accadde nel vicino laboratorio
d’informatica, sulla spinta dei membri di facoltà: qui
il primo sistema protetto da password venne installato nel 1977.
Ancora una volta fu Stallman ad assumersi la responsabilità
di correggere quel che considerava una sorta di lassismo etico.
Avuto accesso al codice del software che controllava il sistema
delle password, vi introdusse un comando che inviava un messaggio
a tutti gli utenti del laboratorio d’informatica mentre
questi si apprestavano a creare una specifica password. Se ad
esempio qualcuno sceglieva “starfish”, veniva
generato un messaggio che diceva all’incirca:
Vedo che hai scelto “starfish” come password. Ti
suggerisco di modificarla in “carriage return.”
E’ molto più facile da digitare e aderisce al
principio che nega l’esistenza di alcuna password.[25]
Gli utenti che optavano per “carriage return” --
quelli cioè che semplicemente premevano il tasto Invio,
lasciando in bianco la stringa della password invece di digitarne
una personale -- consentivano l’accesso al mondo intero,
tramite il proprio account. Una pratica che, per quanto
preoccupasse qualcuno, rinforzava il concetto secondo cui i
computer del MIT, e perfino i file contenuti, appartenevano al
pubblico anziché ai singoli individui. Nel corso di un
intervista per il libro del 1984 Hackers, Stallman fece notare
con orgoglio come un quinto dello staff del laboratorio
d’informatica aderì a quella posizione, lasciando in
bianco la stringa per la password.[26]
In definitiva però la crociata di Stallman si rivelò
inutile. All’inizio degli anni '80 anche le macchine del
laboratorio di intelligenza artificiale finirono per dotarsi di
sistemi di sicurezza basati sulle password. E tuttavia
l’episodio rappresentò una pietra miliare lungo il
percorso della maturazione personale e politica di Stallman.
Osservando con occhio attento le sue vicende successive,
quell’evento si pone come punto di passaggio tra il timido
adolescente terrorizzato a intervenire in pubblico persino su
questioni d’importanza vitale e l’attivista adulto
che avrebbe presto trasformato quell’attività di
provocatore in occupazione a tempo pieno.
Nell’opporsi a piena voce ai sistemi di sicurezza,
Stallman non fece altro che riflettere quelle forze su cui si era
formato da bambino: sete di conoscenza, disgusto per
l’autorità, frustrazione per procedure e regole
nascoste che emarginavano quanti le ignoravano. In tal modo
venivano inoltre evidenziati quei capisaldi morali che avrebbero
dato successivamente forma alla sua vita adulta: la condivisione
di responsabilità, la fiducia, lo spirito hacker mirato
all’azione diretta. Ricorrendo alla terminologia
informatica, si può dire che quella stringa vuota
rappresentava la versione 1.0 della concezione politica globale
di Richard Stallman -- incompleta in alcuni punti, ma per la gran
parte giunta a piena maturità.
Col senno di poi, egli appare esitante nell’attribuire
un significato eccessivo ad un evento avvenuto praticamente
all’inizio della carriera di hacker. “A quei tempi i
miei sentimenti erano condivisi da parecchia gente”,
sostiene Richard. “L’ampio numero di persone che
adottarono una stringa vuota come password è la
testimonianza del fatto che per molti ciò fosse una scelta
giusta. Io ero semplicemente incline a sostenere il ruolo
dell’attivista.”
Stallman riconosce invece al laboratorio d’intelligenza
artificiale il merito di aver risvegliato in lui quel ruolo di
attivista. Da ragazzo aveva osservato gli eventi politici senza
comprendere in che modo un singolo individuo potesse fare o dire
qualcosa d’importante. Divenuto adulto, si era fatto avanti
su questioni in cui si sentiva a proprio agio, temi quali la
progettazione del software, la condivisione di
responsabilità e la libertà individuale. “Ero
entrato a far parte di questa comunità che professava il
pieno rispetto della libertà reciproca”, sostiene.
“Non ci misi molto a rendermi conto di quanto questo fosse
positivo. Mi ci volle di più per capire come si trattasse in
realtà di una questione morale.”
L’attività di hacking al laboratorio
d’intelligenza artificiale non era l’unico contributo
alla crescita della fiducia in se stesso. Verso la metà
dell’anno da matricola ad Harvard, Stallman aveva aderito a
un gruppo specializzato in danze popolari. Quel che era iniziato
come un semplice tentativo di incontrare qualche ragazza e
ampliare i propri orizzonti sociali, si tramutò presto in
una nuova passione parallela a quella dell’hacking. Mentre
si esibiva di fronte al pubblico con il costume di un contadino
dei Balcani, Stallman appariva ben diverso dal ragazzino
scoordinato, frustrato per i tentativi falliti di giocare a
calcio. Si sentiva sicuro, agile e vivo. Per qualche breve
istante, provò perfino la sensazione di un legame emotivo.
Si rese subito conto di quanto fosse piacevole danzare davanti a
degli spettatori, e finì presto per bramare tanto lo
spettacolo in sé quanto il suo aspetto sociale.
Pur se la danza e l’hacking non riuscirono a migliorare
di molto la situazione sociale di Stallman, lo aiutarono a
superare quella sensazione di stranezza che ne aveva
contrassegnato l’esistenza nel periodo pre-Harvard.
Anziché doversi lagnare dei propri difetti caratteriali,
trovò il modo per celebrarli. Nel 1977, mentre partecipava a
un incontro sulla fantascienza, s’imbatté in una
ragazza che vendeva spillette con slogan personalizzati.
Eccitato, Stallman gliene ordinò una con la scritta
“Processiamo Dio.”
Per Stallman si trattava di un messaggio che operava a diversi
livelli. Ateo fin dalla prima giovinezza, quella frase
rappresentava il tentativo di implementare un “secondo
fronte” nel dibattito aperto sulla religione. “A quel
tempo tutti parevano chiedersi se Dio fosse vivo o morto”,
rammenta Stallman. “Quel ‘Processiamo Dio’
proponeva un approccio completamente diverso al problema. Se Dio
era davvero così potente da aver creato il mondo senza
tuttavia far nulla per correggerne i problemi, perché mai
avremmo dovuto adorare un tale Dio? Non sarebbe stato invece
meglio metterlo sotto processo?”
Contemporaneamente lo slogan andava inteso come una battuta
ironica contro l’America e il relativo sistema politico.
Negli anni ‘70 Stallman era rimasto molto colpito dallo
scandalo Watergate. Fin da piccolo aveva imparato a non aver
fiducia nell’autorità costituita. Ora, da adulto,
quella sfiducia era stata rafforzata dalla cultura in vigore
nella comunità hacker del laboratorio di intelligenza
artificiale. Per gli hacker lo scandalo Watergate non era altro
che un adattamento shakespeariano di quella lotta quotidiana per
il potere colpevole di rendere misera l’esistenza di coloro
senza privilegi. Era una parabola amplificata di quel che accade
quando la gente rinuncia alla libertà e all’apertura
in cambio della sicurezza e della convenienza.
Sostenuto da una crescente fiducia in se stesso, Stallman
prese a indossare la spilletta con orgoglio. Ai più curiosi
che s’azzardavano a chiedergli spiegazioni, impartiva
un’identica litania ben preparata: “Il mio nome
è Jehovah”, replicava Stallman. “Ho un progetto
speciale per la salvezza dell’universo, ma per motivi di
sicurezza a livello del paradiso non posso rivelare nulla di
più. Devi soltanto aver fiducia in me, perché soltanto
io sono in grado di vedere come stanno le cose. Tu sai che io
rappresento il bene supremo perché così ti ho
insegnato. Se non avrai fede in me, ti metterò sulla lista
dei nemici per gettarti nell’abisso dove l’Ufficio
Infernale delle Imposte passerà al vaglio le tue
dichiarazioni dei redditi da qui
all’eternità.”
Coloro che interpretavano la litania come una parodia
letterale delle udienze sullo scandalo Watergate afferravano
soltanto metà del messaggio. Stallman voleva anche riferirsi
a un ambito comprensibile soltanto ai colleghi hacker. Un secolo
dopo l’avvertimento di Lord Acton sull’equazione tra
potere assoluto e corruzione altrettanto assoluta, gli americani
sembravano aver dimenticato la prima parte del truismo di Acton:
è il potere stesso a corrompere. Anziché porre in
evidenza i numerosi esempi di flagrante corruzione, Stallman
parve soddisfatto di esprimere in tal modo il proprio oltraggio
nei confronti di un intero sistema che venerava il potere al di
sopra di tutto.
“Mi chiedevo come mai ci si fermasse ai pesci
piccoli”, spiega Stallman, ricordando quella spilla e il
relativo messaggio. “Se ce la prendevamo con Nixon,
perché non fare lo stesso con il Sig. Grande? Dal mio punto
di vista, chiunque detenesse il potere e ne avesse abusato,
meritava di esserne spogliato.”