Un ritratto dell’hacker da giovane
Alice Lippman, madre di Richard Stallman, ricorda ancora il
momento in cui si accorse del dono speciale di cui era dotato suo
figlio.
“Credo fosse quando aveva otto anni”,
rammenta.
Correva l’anno 1961, e dopo il recente divorzio Lippman
trascorreva in famiglia un pomeriggio festivo nel minuscolo
appartamento situato nell’Upper West Side di Manhattan.
Sfogliando una copia di Scientific American, si fermò alla
rubrica preferita, quella di Martin Gardner intitolata
“Giochi matematici”. Come supplente nei licei
artistici, quella pagina le era sempre piaciuta per lo sforzo
mentale che richiedevano i giochi proposti. Mentre suo figlio era
immerso nella lettura di un libro sul vicino divano, decise di
provare a risolvere il quesito della settimana.
“Non ero una cima nel risolvere quei problemi”,
ammette. “Ma come artista ho sempre notato che mi aiutavano
a superare certe barriere concettuali.”
Alice ricorda che quella volta il tentativo andò ad
infrangersi contro un solido muro. Stava per abbandonare con
disgusto la rivista, quando si sentì tirare la manica della
maglietta.
“Era Richard”, racconta, “mi chiedeva se non
avessi bisogno di una mano.”
Osservando prima il quesito e poi suo figlio, inizialmente
considerò l’offerta con un certo scetticismo.
“Gli chiesi se avesse già letto il giornale”,
prosegue. “Lui rispose affermativamente, e anzi aveva
già risolto il quesito matematico. E subito prese a
spiegarmi in dettaglio la soluzione.”
Mentre seguiva il ragionamento logico del figlio, lo
scetticismo lasciò rapidamente posto
all’incredulità. “L’avevo sempre
considerato ragazzo brillante”, aggiunge, “ma questa
era la prima volta che mi trovavo davanti alla conferma concreta
delle sue notevoli capacità”.
Trent’anni dopo quell’evento, la madre sottolinea
il ricordo con un sorriso. “A dire il vero, non credo di
aver mai capito come risolvere quel problema”, spiega.
“Tutto ciò che rammento è la mia enorme sorpresa
per il fatto che ne conoscesse la risposta.”
Seduta al tavolo del salotto in un altro appartamento a
Manhattan – più spazioso, tre camere, lo stesso in cui
traslocò con il figlio nel 1967 dopo essersi risposata con
Maurice Lippman, ora deceduto – Alice Lippman lascia
trasparire un misto di orgoglio e sorpresa, tipico di una madre
ebrea, quando ricorda i primi anni di vita del figlio. Sulla
vicina credenza spicca una grossa fotografia dove Stallman appare
con la barba folta e la toga nera della laurea. Di fianco ecco
altre immagini più piccole con i nipoti della Lippman, ma
per evitare di dare troppa importanza a quella foto, si assicura
di bilanciarne la posizione prominente con un commento
ironico.
“Richard insistette perché la tenessi dopo il suo
dottorato onorario all’Università di Glasgow”,
dice. “Mi fece, ‘Indovina un po’, mamma? È
la prima cerimonia di laurea a cui abbia mai preso
parte.’”[9]
Simili commenti riflettono il senso dell’umorismo che
bisogna avere quando si cresce un bambino prodigio. A scanso di
equivoci, però, per ogni storia che sente e legge sulla
testardaggine e sui comportamenti insoliti del figlio, può
offrirne almeno una dozzina altrettanto significative.
“Il più delle volte aveva un atteggiamento
così conservatore”, sostiene, gesticolando per
un’ironica esasperazione. “Eravamo soliti tenere le
peggiori discussioni proprio qui, a questo tavolo. Io facevo
parte del primo gruppo di insegnanti di scuole pubbliche che
aveva deciso di aderire al sindacato, e per questo Richard ce
l’aveva molto con me. Considerava il sindacato sinonimo di
corruzione. Era anche contrario alla pensione statale. Secondo
lui, la gente poteva accumulare molto più denaro facendo
investimenti in proprio. Chi poteva prevedere che in dieci anni
sarebbe diventato talmente idealista? Tutto quello che rammento
è che un giorno sua sorella venne da me e fece, ‘Cosa
diventerà mai da grande? Un gran fascista?’”
Come unico genitore per circa un decennio – lei e il
padre di Richard, Daniel Stallman, si sposarono nel 1948 per
divorziare nel 1958, condividendo poi la custodia del figlio
– la madre convalida l’avversione del figlio per
l’autorità costituita. Ne conferma altresì la
brama di conoscenza. Era quando queste due forze
s’intrecciavano, insiste, che lei e il figlio si davano
alle battaglie più accese.
“Sembrava non volesse mai mangiare”, afferma
rammentando quei modelli comportamentali stabilitisi verso gli
otto anni e rimasti inalterati fino al diploma di scuola
superiore nel 1970. “Gli dicevo che la cena era pronta, e
non mi ascoltava. Dovevo chiamarlo nove o dieci volte soltanto
per avere la sua attenzione. Era totalmente assorto in
qualcosa.”
Da parte sua Stallman ricorda situazioni analoghe, ma con un
pizzico di politica in più.
“Amavo leggere”, dice. “Se avevo voglia di
leggere e mia madre mi diceva di venire a tavola o di andare a
letto, non mi curavo di darle ascolto. Non vedevo motivo
perché non potessi continuare a leggere. Non c’era
nessuna ragione per cui lei potesse dirmi cosa fare, punto e
basta. In pratica, quello che avevo letto su robe tipo democrazia
e libertà individuale, lo applicavo a me stesso. Non mi
pareva giusto escludere i bambini da simili principi.”
L’assoluta convinzione nella libertà individuale
contro ogni autoritarismo tendeva ad estendersi anche
all’ambiente scolastico. All’età di 11 anni era
due anni avanti ai compagni di classe, costretto a sopportare le
solite frustrazioni di uno studente assai dotato. Non era passato
molto tempo dalla scena del quesito matematico, che sua madre
venne chiamata per il primo di una lunga serie di incontri con
gli insegnanti di Richard.
“Si rifiutava categoricamente di scrivere temi o
ricerche”, dice Lippman a proposito di una questione assai
controversa. “Credo che l’ultima cosa che scrisse
prima di passare alle medie fosse un riassunto sulla storia del
sistema numerico in occidente, per l’insegnante di quarta
elementare.”
Dotato di talento in qualunque ambito richiedesse un approccio
analitico, Stallman era solito gravitare verso matematica e
scienze a spese di altre materie. Quel che ad alcuni insegnanti
appariva come una sorta di scarsa elasticità, tuttavia, per
la madre non era altro che impazienza. Scienza e matematica
offrivano semplicemente troppe opportunità per
l’apprendimento, soprattutto in confronto a materie e
attività verso le quali il figlio appariva meno predisposto.
Verso i 10 o 11 anni, quando i compagni di classe di Stallman
partecipavano regolarmente a partite di calcio, lei lo ricorda
tornare a casa inviperito. “Aveva una gran voglia di
giocare, ma non aveva molta coordinazione”, spiega.
“Questo lo faceva andare su tutte le furie.”
Alla fine la rabbia spinse Richard a dedicarsi con ulteriore
passione a scienza e matematica. Tuttavia, anche in campo
scientifico l’impazienza poteva giocargli brutti scherzi.
Immerso nei libri di calcolo all’età di sette anni,
Stallman non vedeva alcun bisogno di esprimersi in maniera
più semplice per gli adulti. Una volta, erano gli anni delle
medie, Lippman assunse uno studente della vicina Columbia
University per giocare al fratello maggiore con il figlio. Dopo
la prima volta, lo studente lasciò l’appartamento per
non farvi mai più ritorno. “Credo che il modo di
esprimersi di Richard gli fece girare la testa”, specula
oggi la Lippman.
Un altro aneddoto materno risale all’inizio degli anni
’60, poco dopo il caso del gioco matematico. A circa sette
anni, due anni dopo il divorzio e il trasloco dal Queens, Richard
si diede all’hobby di lanciare modellini di razzi nel
vicino Riverside Drive Park. Quello che era iniziato come un
innocuo passatempo prese una piega molto seria quando iniziò
a tener nota dei risultati di ogni lancio. Come per
l’interesse nei problemi matematici, la faccenda
attirò poca attenzione fino al giorno in cui, poco prima di
un importante lancio spaziale della NASA, Lippman chiese al
figlio se non volesse guardarlo in televisione.
“Era furioso”, afferma Lippman. “Per tutta
risposta riuscì a dirmi: ‘Ma non ho ancora pubblicato
nulla.’ Sembrava proprio che avesse qualcosa di serio da
mostrare alla NASA.”
Tali aneddoti costituiscono le prove precoci di
quell’intensità che sarebbe divenuta la principale
caratteristica di Stallman per tutta la vita. Quando altri
bambini si ritrovavano intorno al tavolo, Stallman se ne stava in
camera sua a leggere. Quando altri bambini ascoltavano la musica
di Johnny Unitas, egli preferiva Werner von Braun. “Ero
strano”, sostiene Stallman riassumendo succintamente i suoi
primi anni di vita nel corso di un’intervista datata 1999.
“Dopo una certa età, gli unici amici che avevo erano
gli insegnanti.”[10]
Nonostante ciò comportasse ulteriori rincorse a scuola,
Lippman decise di assecondare la passione del figlio.
All’età di 12 anni, in estate Richard prese a
frequentare dei corsi scientifici integrando l’anno
scolastico con lezioni private. Quando un insegnante le
raccomandò di iscriverlo al Columbia Science Honors Program,
un corso sull’era del dopo-Sputnik realizzato per i
migliori studenti di scuola media di New York City, Stallman lo
aggiunse alle sue attività extra-scolastiche e si trovò
presto a fare il pendolare recandosi in centro ogni sabato, al
campus della Columbia University.
Dan Chess, suo compagno di classe durante quel corso, ricorda
che Stallman appariva un po’ strano perfino agli studenti
che condividevano la stessa grande passione per la scienza e la
matematica. “Eravamo un po’ tutti fissati e asociali,
ma lui sembrava insolitamente impacciato”, ricorda Chess,
oggi professore di matematica presso l’Hunter College.
“Era anche incredibilmente intelligente. Ho conosciuto
parecchie persone in gamba, ma credo che lui fosse il più
sveglio di tutti.”
Seth Breidbart, anch’egli ex-studente del Columbia
Science Honors Program, rincara la dose. Programmatore
informatico rimasto in contatto con Stallman grazie alla comune
passione per la fantascienza e i relativi eventi pubblici,
ricorda che il quindicenne Stallman “incuteva
timore”, specialmente ad un coetaneo.
“Non è facile descriverlo”, aggiunge
Breidbart. “Non che fosse inavvicinabile. Solo che era
molto sensibile. [Era] molto perspicace ma anche molto testardo
alcune volte.”
Simili descrizioni si prestano ad alcune speculazioni:
aggettivi e giudizi quali “sensibile” e
“testardo” vanno forse intesi come modalità
descrittive di quei tratti caratteriali oggi pertinenti alla
categoria dei disturbi comportamentali dell’adolescenza? Un
articolo apparso nel dicembre 2001 sul mensile Wired con il titolo “The
Geek Syndrome” presenta la descrizione di diversi bambini
portati per la scienza, e affetti da autismo ad alta
funzionalità o sindrome di Asperger. Per molti versi, i
ricordi dei genitori riportati nell’articolo di Wired assomigliano stranamente a
quelli raccontati da Alice Lippman. Perfino Stallman di tanto in
tanto si è concesso qualche analisi psichiatrica. Nel 2000,
durante un’intervista per il Toronto Star, Stallman si è
autodefinito “sull’orlo
dell’autismo”[11] descrizione che la dice lunga
sulle ragioni della sua continua tendenza verso
l’isolamento sociale ed emotivo, e sullo sforzo parimenti
intenso di superare tale tendenza.
Naturalmente queste speculazioni sono facilitate dal tira e
molla che oggi si opera sulla maggior parte dei cosiddetti
“disturbi comportamentali”. Come fa notare Steve
Silberman, autore di “The Geek Syndrome”, soltanto
recentemente gli psichiatri americani sono arrivati a considerare
la sindrome di Asperger come termine valido per coprire
un’ampia serie di tratti comportamentali. Questi vanno da
scarse capacità motorie a difficoltà di
socializzazione, da un’intelligenza assai vivace a
un’affinità quasi ossessiva con numeri, computer e
sistemi ordinati[12]. Riflettendo sulla natura
variegata di tale classificazione, Stallman ritiene che, se fosse
nato 40 anni più tardi, sarebbe probabilmente rientrato in
quella diagnosi. Ma, ancora una volta, lo stesso può dirsi
per molti suoi colleghi nel mondo informatico.
“È possibile che io sia stato affetto da qualcosa
di simile”, dice. “D’altra parte, uno degli
aspetti di tale sindrome riguarda la difficoltà a seguire il
ritmo. Io so ballare, anzi, adoro seguire i ritmi più
complicati. Quindi non è così semplice.”
Da parte sua Chess rifiuta questi tentativi di diagnosi
all’indietro. “Non ho mai pensato potesse avere
qualcosa di simle”, dice. “Era soltanto poco
socievole, ma a quel tempo tutti lo eravamo.”
La Lippman, d’altra parte, lascia aperta questa
possibilità. Rammenta comunque un paio di episodi
nell’infanzia del figlio che danno adito a ulteriori
speculazioni. Uno dei maggiori sintomi dell’autismo
riguarda l’ipersensibilità a rumori e colori, e la
madre ricorda due aneddoti che sembrano confermarlo.
“Quando Richard era piccolo, lo portavamo in
spiaggia”, dice. “Cominciava a urlare ancor prima di
arrivare. Alla terza volta capimmo qual era il problema: il
rumore della risacca era fastidioso per le sue orecchie.”
Analoga reazione di fronte ai colori: “Mia madre aveva i
capelli d’un rosso brillante, e ogni volta che faceva per
prenderlo in braccio, lui cominciava a lamentarsi.”
Negli ultimi anni la Lippman dice di aver letto libri
sull’autismo e ritiene tali episodi qualcosa di più
che semplici coincidenze. “Credo che Richard avesse alcune
qualità dei bambini autistici”, afferma.
“Rimpiango solo il fatto che allora si sapesse così
poco dell’autismo.”
Col passar del tempo, tuttavia, suo figlio imparò a
controllarsi. A sette anni lo ricorda vantarsi di stare in piedi
sulla prima carrozza della metropolitana, memorizzando la mappa
dei labirinti che costituivano il sistema delle rotaie sotto la
città. Questo passatempo si basava sulla capacità di
ignorare il forte rumore tipico di ogni treno. “Pareva
essere infastidito soltanto dal frastuono iniziale”,
spiega. “Era come se subisse un shock in fase d’avvio
del rumore, ma poi i suoi nervi avevano imparato ad
adeguarvisi.”
Per la maggior parte, Lippman ricorda che il figlio esprimeva
l’eccitamento, l’energia, e le tendenze sociali di
qualunque ragazzo normale. Fu solo quando la famiglia Stallman
precipitò in una serie di eventi traumatici che divenne
introverso ed emotivamente distante.
Il primo di tali eventi fu il divorzio tra Alice e Daniel
Stallman, il padre di Richard. Nonostante la madre sostenga che
entrambi cercarono di preparare al meglio il ragazzo, il colpo fu
comunque devastante. “Quando gli spiegammo cosa stava
accadendo, sulle prime non prestò alcuna attenzione”,
rammenta Lippman. “Ma la realtà fu come uno schiaffo
quando io e lui ci trasferimmo nel nuovo appartamento. La prima
cosa che disse fu, ‘Dove sono i mobili di
papà?’”
Per il decennio successivo, Stallman avrebbe trascorso la
settimana nella casa della madre a Manhattan e i week-end in
quella del padre nel Queens. Gli spostamenti avanti e indietro
gli diedero la possibilità di confrontare le contrastanti
differenze dei genitori al punto che a tutt’oggi rimane
decisamente contrario all’idea di avere figli propri.
Parlando di suo padre, un veterano della Seconda Guerra Mondiale
deceduto nella primavera 2001, Stallman lo fa mescolando rispetto
e rabbia. Da una parte c’è l’integrità
morale dell’uomo che volle imparare il francese soltanto
per poter essere di maggiore aiuto agli Alleati dopo il loro
sbarco. Dall’altra, c’era invece il genitore che
sapeva sempre come fare per demoralizzarti in maniera
crudele[13].
“Mio padre aveva un carattere terribile”, dice
Stallman. “Non urlava mai, ma trovava sempre
l’occasione per criticarti in modo gelido, apposta per
buttarti giù.”
Riguardo la vita in casa della madre, Stallman è meno
equivoco. “Lì c’era guerra aperta”,
sostiene. “Nei momenti peggiori, ero solito dirmi,
‘Voglio andare a casa,’ riferendomi a quel luogo
inesistente che non avrò mai.’”
Nei primi anni del divorzio, Stallman trovò quella
tranquillità che gli mancava nell’abitazione dei nonni
paterni. Poi, quando aveva dieci anni, morirono a breve distanza
l’uno dall’altra. Per Stallman si trattò di una
perdita devastante. “Quando andavo a far loro visita,
sentivo di trovarmi un ambiente amorevole, gentile”,
ricorda. “Era l’unico posto in cui ciò mi
accedeva, fino a quando partii per il college.”
Lippman elenca la dipartita dei nonni paterni come il secondo
evento traumatico. “Ne rimase molto colpito”, dice.
“Si sentiva molto vicino a entrambi. Prima che morissero,
era molto gioviale, quasi il tipo da leader del gruppo quando
stava con gli altri ragazzi. Dopo la loro scomparsa, divenne
emotivamente molto più introverso.”
Dal punto di vista di Stallman, questa introversione non era
altro che un modo per affrontare l’agonia
dell’adolescenza. Descrivendo quegli anni come
“orrore puro”, sostiene di essersi sentito non di
rado come un sordo in mezzo a una folla che chiacchiera
ascoltando musica.
“Spesso avevo la sensazione di non essere in grado
dicapire quel che gli altri andavano dicendo”, spiega
Stallman, rammentando la bolla emotiva che lo isolava dal resto
del mondo adolescenziale e adulto. “Ne comprendevo le
parole, ma c’era qualcosa nelle conversazioni che non
riuscivo ad afferrare. Non capivo perché mai la gente fosse
interessata a quello che dicevano gli altri.”
Pur in tutta quell’agonia, l’adolescenza avrebbe
infine prodotto un effetto incoraggiante sul suo senso
d’individualità. In un periodo in cui la maggior parte
dei compagni di classe si lasciavano crescere i capelli, Stallman
preferiva tenerli corti. In un epoca in cui tutto il mondo
giovanile ascoltava il rock &
roll, egli optava per la musica classica. Convinto
appassionato di fantascienza, della rivista Mad e dei programmi notturni in
televisione, Stallman andava coltivando una personalità
decisamente anticonformista che gli valse l’incomprensione
di genitori e amici.
“Oh, tutte quelle battute”, dice la Lippman,
ancora esasperata ricordando il carattere del figlio adolescente.
“Non c’era una cosa che potevi dire a cena senza
stimolarne una frecciatina.”
Fuori casa, Stallman riservava le battute più sagaci a
quegli adulti che parevano appagare le sue qualità innate.
Una delle prime volte toccò all’assistente di un corso
estivo che passò a Stallman, allora dodicenne, la stampa del
manuale per il computer IBM 7094. Per un ragazzo affascinato dai
numeri e dalla scienza, si trattava di un dono venuto dal
cielo[14]. Stallman si mise a scrivere
programmi su carta seguendo le specifiche interne del modello
7094, nell’impaziente attesa di avere la possibilità
di sperimentarli su una macchina vera.
Il primo personal computer era di là da venire per ancora
un decennio, per cui sarebbe stato costretto ad attendere ancora
qualche anno prima di poter mettere le mani su un computer.
Finalmente ecco presentarsi la prima vera occasione, durante il
primo anno delle medie. Lavorando all’IBM New York
Scientific Center, reparto ora scomparso nel cuore di Manhattan,
Stallman trascorse l’estate scrivendo il suo primo
programma in linguaggio PL/I, un pre-processore per il 7094.
“Iniziai con il PL/I, poi rifeci tutto da capo in assembler
quando il programma risultò troppo grosso per quel
computer”, rammenta Richard.
Dopo aver lavorato all’IBM Scientific Center, Stallman
divenne assistente di laboratorio presso il dipartimento di
biologia della Rockefeller University. Pur se già avviato
verso una brillante carriera nel campo della matematica o della
fisica, la mente analitica di Stallman colpì a tal punto il
direttore del laboratorio che qualche anno dopo aver lasciato il
collegio, la madre ricevette una telefonata del tutto inattesa.
“Era il professore della Rockefeller”, ricorda.
“Voleva sapere come se la passava Richard. Rimase sorpreso
nell’apprendere che lavorava con i computer. Aveva sempre
creduto che potesse avere un grande futuro come
biologo.”
Le capacità analitiche di Stallman avevano impressionato
anche i docenti della Columbia, anche se spesso non mancava di
farli infuriare. “In genere una o due volte ogni lezione
[Stallman] trovava qualche errore”, sostiene Breidbart.
“Ed era tutt’altro che timido nel farlo
immediatamente presente al professore di turno. Fu così che
si guadagnò parecchio rispetto ma poca
popolarità.”
L’aneddoto di Breidbart suscita un sorriso ironico su
volto di Stallman. “È vero, talvolta esageravo un
po’”, ammette. “Ma tra gli insegnanti ho
trovato persone aperte, perché anche a loro piaceva
imparare. Non così, in genere, tra gli studenti. Almeno, non
nella stessa maniera.”
Comunque sia, il fatto di trascorrere il sabato con ragazzi
più grandi spinse Stallman a considerare meglio i meriti di
una maggiore socializzazione. Con l’approssimarsi del
college, al pari di molti studenti del Columbia Science Honors
Program aveva ristretto la lista delle possibili scelte a due
nomi: Harvard e il MIT. Vista l’opzione limitata a istituti
di livello così alto, la Lippman aveva iniziato a
preoccuparsi. Come quindicenne di scuola media, Stallman era
ancora solito esprimere disaccordo con insegnanti e
amministratori. Appena l’anno prima aveva avuto ottimi voti
in storia americana, chimica, francese e algebra, ma un voto del
tutto insoddisfacente in inglese che rispecchiava il continuo
boicottaggio dei compiti scritti. Simili inadempienze potevano
passare inosservate al MIT, ma non certo ad Harvard.
Durante l’ultimo anno delle medie, la madre decise di
consultare un terapista. Quest’ultimo rimase subito colpito
dal rifiuto di Stallman per i compiti scritti e dai frequenti
confronti con gli insegnanti. Il figlio era sicuramente dotato
dei requisiti intellettuali per eccellere ad Harvard, ma aveva
forse la pazienza di seguire quei corsi che alla fine impongono
una relazione scritta? Il terapista suggerì una sorta di
test. Se Stallman fosse riuscito a frequentare con successo un
anno presso una scuola pubblica di New York City, incluso
l’esame di una materia come inglese che richiede un compito
scritto, probabilmente ce l’avrebbe fatta anche ad Harvard.
Finite le medie, eccolo iscriversi immediatamente ai corsi estivi
della Louis D. Brandeis High School, istituto pubblico situato
sulla 84-esima, dove iniziò a recuperare in quelle materie
artistiche obbligatorie che aveva trascurato alle medie.
In autunno Stallman si era allineato con il resto della
popolazione scolastica delle medie a New York City. Non era certo
facile starsene seduto a seguire lezioni che parevano
raffazzonate rispetto ai corsi del sabato presso la Columbia, ma
Lippman ricorda con orgoglio l’impegno del figlio nel voler
superare quel traguardo.
“In un certo senso fu costretto a piegarsi, ma
riuscì a farcela”, spiega Lippman. “Mi
chiamarono una sola volta, una specie di miracolo. Fu
l’insegnante di calcolo a lamentarsi del fatto che Richard
era solito interrompere la lezione. Gli domandai in che modo lo
facesse. Rispose che Richard lo accusava di presentare prove
fasulle. Gli chiesi, ‘Bè, è vero?’, e lui
fece: ‘Sì, ma non posso certo dirlo alla classe. Non
capirebbero.’”
Al termine del primo semestre alla Brandeis, le cose stavano
prendendo la giusta piega. Pienamente recuperato l’inglese,
Stallman ebbe ottimi voti in storia americana, calcolo avanzato e
microbiologia. Il massimo lo raggiunse in fisica. Pur rimanendo
un’asociale, Stallman concluse i suoi 11 mesi alla Brandeis
al quarto posto su un totale di 789 studenti. Fuori da quelle
aule, Stallman proseguì gli studi con diligenza perfino
maggiore, correndo per completare i suoi doveri di assistente di
laboratorio alla Rockefeller University durante la settimana e
aggregandosi ai cortei contro la guerra in Vietnam lungo la
strada verso i corsi del sabato alla Columbia. Fu allora che,
mente gli altri studenti dello Science Honors Program
confrontavano le proprie scelte per il college, finalmente
Stallman trovò un momento per partecipare a quelle
discussioni.
Ricorda Breidbart, “Naturalmente la maggior parte di
loro sarebbe andata ad Harvard e al MIT, giusto qualcuno pensava
ad altri istituti importanti. Pur nel pieno della conversazione,
Richard rimaneva l’unico a non aver detto ancora nulla.
Allora qualcuno, non ricordo chi, trovò il coraggio di
chiedergli direttamente cosa pensasse di fare.”
Son trascorsi trent’anni, ma Breidbart ricorda
chiaramente quel momento. Non appena anch’egli rivelò
che in autunno si sarebbe iscritto alla Harvard University, un
pesante silenzio piombò nella stanza. Al momento opportuno,
gli angoli della bocca di Stallman lentamente si mossero verso un
sorriso autocompiaciuto.
Spiega Breidbart, “Era il suo modo di dire, in silenzio,
‘Già, non vi siete ancora liberati di
me.’”