Il laboratorio di intelligenza artificiale degli anni
’70 era un luogo speciale sotto tutti gli aspetti. Il
connubio tra progetti d’avanguardia e ricercatori di
livello insuperabile, gli conferivano una posizione di primo
piano nel mondo dell’informatica. La cultura hacker vigente
al suo interno con le sue politiche anarchiche, gli conferiva
un’aurea ribelle. Soltanto più avanti, con
l’addio dei migliori ricercatori e delle superstar del
software, gli hacker avrebbero compreso quanto fosse unico ed
effimero il mondo in cui avevano vissuto un tempo.
“Era una sorta di paradiso terrestre”, così
Stallman ricorda il laboratorio e l’ethos della condivisone
del software, in un articolo del 1998 per la rivista Forbes. “Non ci veniva
neppure in mente di non collaborare tra noi”[43].
Queste descrizioni mitologiche, per quanto eccessive,
sottolineano un fatto importante. Erano in parecchi a ritenere il
nono piano dello stabile al 545 di Tech Square come qualcosa di
più di un luogo di lavoro. Hacker come Stallman lo
consideravano la loro casa.
Nel lessico di quest’ultimo, il termine
“casa” riveste un significato del tutto particolare.
Con una nota polemica verso i propri genitori, ancora oggi
rifiuta di riconoscere come casa propria nessun’altra
abitazione precedente alla Currier House, il dormitorio in cui
viveva ai tempi di Harvard. Luogo che tra l’altro dovette
abbandonare in maniera tragicomica, almeno stando alla sua stessa
descrizione. Una volta, parlando dei suoi anni ad Harvard,
Stallman disse che il suo unico rimpianto fu di essere stato
sbattuto fuori. Non appena gli chiesi cosa avesse provocato
quell’episodio, mi resi conto di aver toccato un altro mito
della sua vita.
“Ad Harward hanno questa politica: se passi troppi
esami, ti chiedono di andartene”, mi disse.
Lasciato il dormitorio e senz’alcuna voglia di
tornarsene a New York, Stallman seguì la strada già
percorsa da Greenblatt, Gosper, Sussman e numerosi altri hacker
prima di lui. Dopo essersi iscritto al MIT e aver preso in
affitto un appartamento nella vicina Cambridge, ben presto
Stallman si rese conto di come il laboratorio di intelligenza
artificiale fosse divenuto di fatto la sua dimora. In un
intervento del 1986, così ricorda quel periodo:
È probabile che io abbia vissuto al laboratorio più
di altri, perché quasi ogni anno per un motivo o per
l’altro dovevo trovarmi un nuovo appartamento, e
nell’attesa finivo per trascorrere lì qualche mese. Mi
ci sono trovato sempre bene, in estate era proprio fresco.
Capitava di frequente che qualcuno vi si addormentasse, altro
effetto dell’entusiasmo; stai alzato davanti al monitor
fino allo stremo delle forze perché non vuoi smettere, e
quando sei completamente esausto non fai altro che distenderti
sulla superficie morbida e orizzontale più vicina.
Un’atmosfera davvero informale[44].
Talvolta questa atmosfera casalinga creava dei problemi.
Quello che alcuni consideravano alla stregua di dormitorio, per
altri non era altro che una specie di ritrovo per
“oppiomani elettronici.” Nel libro Computer Power and Human Reason,
del 1976, Joseph Weizenbaum, ricercatore presso il MIT, non
risparmia pesanti critiche ai “vagabondi
informatici”, nella sua definizione degli hacker che
popolavano quei locali. “Vestiti trasandati, capelli
sporchi e spettinati, barba lunga, testimoniavano la loro
indifferenza al corpo e al mondo circostante” scrive
Weizenbaum. “[I vagabondi informatici] vivono, almeno
relativamente a questo contesto, soltanto grazie e per il
computer.”[45]
Un quarto di secolo dopo la pubblicazione di quel libro,
Stallman rispose alla descrizione dei “vagabondi
informatici” di Weizenbaum come se quest’ultimo gli
fosse stato di fronte in quel preciso istante. “Vuole che
tutti siano dei professionisti, gente che lavora per i soldi e
che appena possibile dimentica e abbandona i progetti di cui si
occupa”, spiega Stallman. “Quello che a lui appare
come uno scenario comune, a me sembra una vera
tragedia.”
E tuttavia, anche la vita dell’hacker non era priva di
tali tragedie. Stallman descrive la sua transizione da hacker del
fine settimana a ricercatore a tempo pieno nel laboratorio di
intelligenza artificiale come una serie di dolorose sventure, che
riuscì a superare soltanto grazie all’euforia
dell’hacking. Nel suo racconto, il primo di questi episodi
risale all’epoca della laurea ad Harvard. Convinto di voler
proseguire gli studi in fisica, Stallman si iscrisse subito al
MIT. Una scelta naturale che non soltanto gli permetteva di
seguire le orme di alcuni grandi studenti del MIT come William
Shockley (1936), Richard P. Feynman (1939) e Murray Gell-Mann
(1951), ma gli consentiva anche di vivere a meno di tre
chilometri dal laboratorio di intelligenza artificiale e dal
nuovo computer PDP-10. “Ero attratto dalla programmazione,
ma pensavo ancora che avrei potuto coltivare entrambe le
cose”, ricorda Stallman.
Di giorno a seguire i corsi di laurea e la notte a programmare
nei monastici confini del laboratorio di intelligenza
artificiale, Stallman era alla ricerca del perfetto equilibrio.
Il fulcro di questa frenetica attività stava però nelle
uscite settimanali con il gruppo di danze popolari, evento
sociale che gli garantiva quantomeno un modico livello di
interazione con l’altro sesso. Fu sul finire del primo anno
al MIT, tuttavia, che avvenne il disastro. Una ferita al
ginocchio lo costrinse a lasciare il gruppo. All’inizio lo
considerò un problema temporaneo e dedicò al
laboratorio d’intelligenza artificiale l’ulteriore
tempo libero distolto alla danza. Ma al termine dell’estate
iniziò a preoccuparsi seriamente, col ginocchio ancora
dolorante e l’approssimarsi dei nuovi corsi. “Il
ginocchio non ne voleva sapere di migliorare”, ricorda
Stallman, “con la conseguenza che dovetti smettere
definitivamente di danzare. Fu un colpo mortale.”
Senza né dormitorio né danze, il suo universo
sociale finì per implodere. Al pari di un astronauta alle
prese con i postumi dell’assenza di gravità, si rese
conto di come la sua capacità di interagire con i
non-hacker, soprattutto di genere femminile, si fosse atrofizzata
in maniera considerevole. Dopo 16 settimane trascorse al
laboratorio di intelligenza artificiale, quella fiducia in se
stesso lentamente accumulata durante i quattro anni ad Harvard
era praticamente scomparsa.
“In pratica mi sentivo svuotato di ogni energia”,
rammenta Stallman. “Non avevo voglia di far nulla se non
quel che mi attirava al momento, non avevo energia per altro. Ero
disperato.”
Finì presto per ritirarsi ulteriormente dal mondo,
dedicandosi unicamente al lavoro nel laboratorio di intelligenza
artificiale. Nell’ottobre 1975, abbandonò i corsi al
MIT, per non farvi mai più ritorno. Da semplice hobby
iniziale, l’attività di hacking era diventata la sua
vocazione.
Riflettendo su quel periodo, Stallman considera inevitabile il
passaggio da studente a tempo pieno ad hacker a tempo pieno.
Prima o poi, così ritiene, quest’ultimo richiamo
avrebbe superato ogni altro interesse a livello professionale.
“In materie come fisica o matematica, non riuscivo mai a
proporre contributi originali”, sostiene Stallman
riferendosi alle vicissitudini precedenti la ferita al ginocchio.
“Sarei stato orgoglioso di fornire contributi allo sviluppo
di uno dei due campi, ma non vedevo come avrei potuto farlo. Non
sapevo da che parte cominciare. Col software, invece, sapevo
già come scrivere cose funzionanti e utili. Il piacere di
questa conoscenza mi portò a desiderare di proseguire su
questa strada.”
Stallman non era certo il primo ad equiparare hacking e
piacere. Gran parte di coloro che lavoravano al laboratorio di
intelligenza artificiale vantavano un curriculum accademico
analogamente incompleto. Molti di loro si erano iscritti a corsi
di laurea in matematica o in ingegneria elettrica soltanto per
poi abbandonare le proprie ambizioni professionali per la sottile
soddisfazione che si ottiene risolvendo problemi mai affrontati
prima. Come San Tommaso d’Aquino, noto per aver lavorato
talmente a lungo sulle questioni teologiche da avere talvolta
delle visioni spirituali, gli hacker raggiungevano stati di
trascendenza interiore grazie alla concentrazione mentale e alla
spossatezza fisica. Come la maggior parte di loro, Stallman
rifiutava l’uso di droghe ma era attirato dallo stato di
ebbrezza che si prova dopo 20 ore trascorse a scrivere
codice.
Forse l’emozione più piacevole era il senso di
appagamento personale. Per Stallman l’arte
dell’hacking era qualcosa di naturale. Le lunghe notti
passate a studiare quando era bambino, gli permettevano di
lavorare a lungo, con poche ore di sonno. Asociale e
individualista fin da quando aveva dieci anni, non aveva alcun
problema a lavorare in completa solitudine. E in quanto
matematico eccellente con capacità innate per la logica e un
occhio critico, Stallman riusciva a superare quelle barriere
progettuali che facevano dannare gran parte degli hacker.
“Era davvero speciale”, ricorda Gerald Sussman,
membro di facoltà al MIT ed ex ricercatore presso il
laboratorio di intelligenza artificiale. Descrivendolo come
“pensatore e progettista acuto”, fu Sussman ad
assumere Stallman come assistente per un progetto di ricerca a
partire dal 1975. Si trattava di un progetto complesso, che
richiedeva la creazione di un programma di IA in grado di
analizzare i diagrammi dei circuiti. Qualcosa che richiedeva non
soltanto un esperto di Lisp, un linguaggio di programmazione
realizzato appositamente per applicazioni nel campo
dell’intelligenza artificiale, ma anche la piena
comprensione di come un essere umano avrebbe affrontato lo stesso
problema.
Quando non lavorava a progetti ufficiali come quello di
Sussman sul programma automatico di analisi dei circuiti,
Stallman si dedicava a progetti personali. Era nel miglior
interesse di ciascun hacker contribuire al miglioramento
dell’infrastruttura del laboratorio, e uno dei suoi
progetti più importanti di quel periodo riguardava
l’editor TECO.
Negli anni ’70 il suo impegno in tale progetto appare
inestricabilmente connesso alla successiva leadership del
movimento del software libero, oltre a rappresentare un passaggio
significativo nella storia dello sviluppo dell’informatica,
motivo per cui val la pena riassumerlo qui. Nel corso degli anni
’50 e ’60, quando il computer fece la sua prima
apparizione nelle aule universitarie, la programmazione
costituiva qualcosa di puramente astratto. Per comunicare con la
macchina, gli sviluppatori creavano una serie di schede
perforate, ognuna delle quali rappresentava un singolo comando
software. Tali schede venivano poi passate
all’amministratore centrale del sistema, il quale le
avrebbe a sua volta introdotte una ad una nella macchina,
aspettando che questa ne producesse in uscita una nuova serie,
che andava infine decifrata come output dai programmatori. Questa
procedura, nota come “elaborazione batch”, era tanto
noiosa ed estenuante quanto soggetta ad abusi di autorità.
Uno dei fattori a monte dell’innata avversione degli hacker
per la centralizzazione, stava nel potere conferito ai primi
amministratori di sistema cui spettava decidere quali lavori
avessero priorità più alta.
Nel 1962 i ricercatori informatici e gli hacker riuniti sotto
il progetto MAC del MIT, precursore del laboratorio di
intelligenza artificiale, presero a darsi da fare per alleviare
quel senso di frustrazione. Il “time sharing”
(condivisione di tempo) all’inizio detto “time
stealing” (furto di tempo), aveva reso possibile a più
programmatori l’uso contemporaneo delle capacità
operative di una macchina. L’interfaccia a telescrivente
consentiva inoltre la comunicazione non più tramite una
serie di fori in una scheda, bensì grazie
all’interazione testuale. Il programmatore digitava dei
comandi e leggeva poi, riga per riga, il risultato prodotto dalla
macchina.
Sul finire degli anni ’60, lo studio
dell’interfaccia compì altri passi in avanti. Nel 1968
in un famoso intervento Doug Engelbart, allora ricercatore presso
lo Stanford Research Institute, illustrò il prototipo di
quella che sarebbe diventata l’interfaccia grafica moderna.
Con l’aggiunta di un monitor televisivo e di un puntatore
chiamato “mouse”, Engelbart mise a punto un sistema
ancora più interattivo di quello a condivisione di tempo
sviluppato al MIT. Trattando il monitor come una stampante ad
alta velocità, tale sistema offriva la possibilità di
seguire gli spostamenti del cursore sul video in tempo reale.
Tutt’a un tratto l’utente era in grado di posizionare
il testo in una parte qualunque dello schermo.
Queste innovazioni non sarebbero arrivate sul mercato prima di
altri vent’anni, ma già dagli anni ’70 i monitor
stavano iniziando a sostituire le telescriventi come terminali di
visualizzazione, dando la possibilità di lavorare a tutto
schermo anziché riga per riga.
Uno dei primi programmi a sfruttare tali potenzialità fu
appunto TECO. Acronimo per Text Editor and COrrector, si trattava
in pratica dell’aggiornamento di un vecchio editor di linea
per telescriventi, adattato alla macchina PDP-6 del
laboratorio[46].
Pur rappresentando un notevole passo avanti rispetto ai primi
programmi analoghi, TECO presentava ancora dei difetti. Per
creare e modificare un documento, il programmatore doveva
inserire una serie di comandi specificando ogni singola
operazione di modifica. Si trattava di un processo del tutto
astratto. Al contrario degli odierni elaboratori di testi, capaci
di aggiornare il testo ogni volta che si preme un tasto, TECO
richiedeva di inserire una lunga sequenza di istruzioni seguita
da un “end of command” (fine del comando) per poter
cambiare una sola frase. Col passar del tempo gli hacker
divennero sufficientemente abili da scrivere interi documenti in
questa modalità, ma come sottolineò in seguito Stallman
il processo richiedeva “uno sforzo mentale simile a quello
di una partita a scacchi giocata a occhi bendati.”[47]
Onde facilitare la procedura, gli hacker del laboratorio di
intelligenza artificiale misero a punto un sistema in grado di
visualizzare entrambe le modalità (“source” e
“display”) sullo schermo diviso a metà.
Nonostante la mossa innovativa, il passaggio da una modalità
all’altra rappresentava pur sempre una gran seccatura.
TECO non era l’unico elaboratore testi a tutto schermo
che girava nel mondo informatico di allora. Nel 1976 durante una
visita al laboratorio di intelligenza artificiale di Stanford,
Stallman si imbattè in un editor chiamato E. Il programma
comprendeva una funzione interna grazie alla quale l’utente
poteva aggiornare il testo visualizzato dopo aver digitato ogni
tasto. Nel lessico della programmazione anni ’70, si
può dire che E era uno dei primi rudimentali esempi di
software WYSIWYG. Abbreviazione di “what you see is what
you get” (quello che vedi è quello che ottieni), il
termine stava ad indicare la possibilità, da parte
dell’utente, di manipolare il file spostando direttamente
il testo prescelto, anziché operare tramite una serie
ulteriore di istruzioni.[48]
Colpito da quell’idea, al MIT Stallman si mise
all’opera per espandere le funzionalità di TECO in
maniera analoga. Partì da una funzione nota come Control-R,
scritta da Carl Mikkelson e così chiamata per la
combinazione dei tasti tramite cui veniva attivata. Tale
combinazione consentiva il passaggio dall’abituale
modalità di esecuzione astratta a quella più intuitiva
operabile tasto dopo tasto. Stallman modificò la funzione in
maniera sottile ma sgnificativa, rendendo possibile
l’attivazione di altre stringhe di comando, cioè le
cosiddette “macro”, mediante diverse combinazioni di
tasti. Laddove in precedenza l’utente doveva digitare una
stringa di istruzioni per poi perderla al momento di passare alla
riga successiva, la funzione ideata da Stallman permetteva di
salvare su file le macro utilizzate così da richiamarle
all’occorrenza. La modifica di Mikkelson aveva elevato TECO
al livello di un editor WYSIWYG, quella di Stallman al livello di
un editor WYSIWYG programmabile dall’utente. “Si
trattò di una vera e propria rivoluzione”, sostiene
Guy Steele, uno degli hacker allora presenti nel laboratorio di
intelligenza artificiale del MIT.
Nel ricordo dello stesso Stallman, l’idea delle macro
provocò un’esplosione di innovazioni a catena.
“Ognuno costruì la propria serie di comandi per
l’editor, ciascuno dei quali attivava le funzioni più
comunemte utilizzate”, avrebbe successivamente ricordato.
“Le macro venivano passate di mano in mano e migliorate,
così da ampliarne la portata e l’utilizzo.
Gradualmente le raccolte di macro si trasformarono in veri e
propri programmi”. L’innovazione si rivelò utile
per così tante persone, che la inserirono nella loro
versione di TECO, tanto che quest’ultimo divenne secondario
rispetto alla mania delle macro così generata.
“Iniziammo a categorizzarlo mentalmente come un linguaggio
di programmazione piuttosto che un elaboratore testi”,
aggiunge Stallman. “Gli utenti si dilettavano ad affinare
il software e a scambiarsi nuove idee.”
Due anni dopo quel boom, il tasso di innovazione cominciò
a mostrare pericolosi effetti collaterali. La crescita esplosiva
aveva fornito una conferma esaltante della validità
dell’approccio collaborativo tra gli hacker, conducendo
però anche ad un’eccessiva complessità.
“Era l’effetto Torre di Babele”, sostiene Guy
Steele.
Questo effetto minacciava di uccidere lo stesso spirito da cui
aveva tratto origine. Il sistema ITS (Incompatible Time Sharing)
era stato progettato dagli hacker per facilitare la condivisione
delle informazioni e migliorare reciprocamente il lavoro degli
altri. Ciò significava essere in grado di sedersi davanti al
monitor di un altro programmatore per inserire direttamente
commenti e correzioni nel software su cui stava lavorando.
“Talvolta la maniera più semplice per mostrare a
qualcuno come scrivere o sistemare il codice era semplicemente
quella di sedersi al terminale e farlo al posto suo”,
spiega Steele.
A un certo punto, dopo due anni di applicazioni, le macro
iniziarono a mascherare le funzioni stesse del programma.
Desiderosi di sfruttare al meglio le nuove funzionalità a
tutto schermo, gli hacker avevano personalizzato a tal punto le
loro versioni di TECO che, sedendosi davanti al terminale di
qualcun altro ci voleva un’ora buona solo per scoprire
quali macro eseguissero le diverse operazioni.
Frustrato, Steele si fece carico di risolvere il problema.
Raccolse quattro diversi pacchetti di macro e iniziò a
compilare un grafico che documentasse i comandi più utili.
Fu mentre lavorava all’implementazione dei vari comandi
specifici che Steele attrasse l’attenzione di Stallman.
“Prese a sbirciare dietro le mie spalle, chiedendomi cosa
stessi facendo”, rammenta.
Per Steele, hacker tranquillo che raramente si era trovato ad
interagire con Stallman, il ricordo è ancora palpabile.
Osservare un hacker al lavoro da dietro le spalle costituiva
un’attività comune in quel laboratorio. Stallman,
incaricato della gestione di TECO, definì
“interessante” l’idea di Steele e decise di
condurla rapidamente in porto.
“Come mi piace sostenere, io curai il primo 0,001 per
cento dell’implementazione e Stallman si occupò del
resto”, ricorda Steele con un sorriso.
Il nome per il nuovo progetto, Emacs, venne scelto dallo
stesso Stallman. Abbreviazione di “editing macros”,
stava a indicare la trascendenza evolutiva avvenuta nel corso di
quei due anni dall’esplosione delle macro. Approfittava
inoltre di un vuoto nel lessico della programmazione interna.
Notando la mancanza nel sistema ITS di programmi che iniziavano
con la lettera “E”, la scelta di Emacs ne rese
possibile l’identificazione tramite la sola lettera
iniziale. Ancora una volta la brama degli hacker per la massima
efficienza aveva centrato l’obiettivo[49].
Mentre lavoravano allo sviluppo di un sistema standard per i
comandi macro, Stallman e Steele dovettero fare alcune acrobazie
politiche. Con la creazione di un programma standard, Stallman si
poneva in chiara violazione di uno dei comandamenti
dell’etica hacker: “promuovi la
decentralizzazione”. E contemporaneamente minacciava di
ostacolare la flessibilità che aveva inizialmente alimentato
l’esplosiva innovazione di TECO.
“Da una parte stavamo cercando di ricreare una serie
uniforme di comandi, dall’altra volevamo mantenerli aperti
salvaguardando l’importanza della
programmabilità”, puntualizza Steele.
Per risolvere il problema, Stallman, Steele e i colleghi David
Moon e Dan Weinreib decisero allora di limitare tale
standardizzazione alle istruzioni WYSIWYG che controllavano la
visualizzazione del testo sul monitor. Il resto del progetto
Emacs avrebbe conservato l’estensibilità a piacimento
dei comandi.
Stallman si trovava però di fronte a un nuovo rompicapo:
se gli utenti avessero apportato modifiche senza comunicarle al
resto della comunità, l’effetto Torre di Babele
sarebbe semplicemente riemerso altrove. Rifacendosi alla dottrina
hacker sulla condivisione delle innovazioni, Stallman inserì
nel codice sorgente una dichiarazione che ne stabiliva le
modalità d’utilizzo. Ciascuno era libero di modificare
e ridistribuire il codice a condizione di informare gli altri
sulle ulteriori estensioni ideate. E scelse come soprannome
“Emacs Commune” (la comune dell’Emacs).
Così come TECO era divenuto qualcosa di più di un
semplice elaboratore testi, Emacs era diventato qualcosa di
più di un semplice programma. Per Stallman si trattava di un
contratto sociale. In uno dei primi appunti relativi al progetto,
ne descrisse in dettaglio i termini. “L’EMACS”,
scrisse, “viene distribuito sulla base della condivisione
comune, ovvero ogni miglioramento deve essere ritrasmesso a me
che provvederò a incorporarlo nelle successive
redistribuzioni.”[50]
Non tutti accettarono quel contratto. Il ritmo esplosivo
dell’innovazione proseguì per tutto il decennio, dando
vita a una miriade di programmi simili all’Emacs con
diversi livelli di compatibilità tra loro. Alcuni indicavano
la relazione con l’originale progetto di Stallman tramite
nomi ironicamente ricorsivi: Sine (Sine is not Emacs), Eine (Eine
is not Emacs), Zwei (Zwei was Eine initially). In quanto devoto
esponente dell’etica hacker, Stallman non vide alcun motivo
per bloccare questa ventata innovativa ricorrendo a pressioni
legali. E tuttavia, il fatto che qualcuno decidesse di
appropriarsi di software appartenente all’intera
comunità, per poi modificarlo e dargli un nuovo nome,
dimostrava una palese mancanza di stile.
Tale comportamento si affiancava ad altri sviluppi negativi in
atto nella comunità hacker. La decisione di Brian Reid del
1979 di inserire “bombe a tempo” all’interno di
Scribe, consentendo così alla Unilogic di limitare
l’accesso al software da parte di utenti non-paganti,
rappresentò un oscuro presagio per Stallman. “Lo
ritenne l’evento peggiore, addirittura nazista, in cui si
fosse mai imbattuto”, ricorda Reid. Pur avendo raggiunto
successivamente una certa notorietà in quanto co-ideatore
della gerarchia “alt” su Usenet, Reid afferma che
deve ancora farsi perdonare quella decisione del 1979, almeno
agli occhi di Stallman: “secondo lui, tutto il software
dovrebbe essere libero e l’idea di far pagare un programma
andrebbe considerata un crimine contro
l’umanità.”[51]
Pur se impossibilitato a fare alcunché per impedire
quella manovra di Reid, Stallman riuscì a ridimensionare
altri comportamenti ritenuti contrari all’etica hacker. In
qualità di gestore centrale del codice per la
“comune” dell’Emacs, iniziò a utilizzare
quella posizione di potere a scopo politico. Nella fase finale
del conflitto con gli amministratori del laboratorio
d’informatica sulla questione delle password, Stallman
lanciò uno “sciopero del software”[52],
rifiutandosi di fornire allo staff di quel laboratorio le ultime
versioni di Emacs fino a quando non avessero eliminato il sistema
di sicurezza dai computer del laboratorio. La mossa non
migliorò molto la crescente reputazione di estremista
acquisita da Stallman, raggiunse però l’obiettivo
prefissato: gli aderenti alla comune si sarebbero fatti sentire a
difesa dei valori base degli hacker.
“Parecchia gente ce l’aveva con me sostenendo che
li stessi tenendo in ostaggio o ricattando, e sotto certi aspetti
avevano ragione”, avrebbe raccontato in seguito Stallman al
giornalista Steven Levy. “Avevo lanciato
un’operazione violenta nei loro confronti perché
ritenevo fossero costoro ad agire violentemente contro tutti gli
altri in senso più generale.”[53]
Col passare del tempo, Emacs si trasformò in un veicolo
per la diffusione dell’etica hacker. La flessibilità
di cui lo avevano dotato Stallman e gli altri hacker non soltanto
incoraggiava la collaborazione ma anzi la imponeva. Gli utenti
che non si aggiornavano sullo sviluppo del software o che non
inviavano a Stallman i propri contributi, correvano il rischio di
rimanere tagliati fuori dalle ultime novità. E queste erano
tutt’altro che poca cosa. A vent’anni dalla sua
creazione, gli utenti avevano modificato Emacs per consentirne
l’impiego in molti ambiti -- come foglio di calcolo,
calcolatrice, database, browser Web -- al punto che gli ultimi
sviluppatori, per rappresentarne l’ampia versatilità,
adottarono l’immagine di un lavandino in cui l’acqua
fuoriesce. “Era questa l’idea che volevamo
comunicare”, spiega Stallman. “La quantità di
funzioni al suo interno è allo stesso tempo meravigliosa e
terrificante.”
I contemporanei di Stallman nel laboratorio di intelligenza
artificiale si mostrano più benevoli. Hal Abelson, laureando
al MIT, già collaboratore di Stallman negli anni ’70 e
successivamente membro del direttivo della Free Software
Foundation, descrive l’Emacs come “una creazione
assolutamente brillante”. Consentendo ai programmatori di
aggiungere nuove librerie e funzioni senza mettere sottosopra il
sistema, secondo Abelson, Stallman aprì la strada verso
futuri progetti analoghi su larga scala. “La struttura si
dimostrò sufficientemente robusta da permettere
l’aperta collaborazione da parte di persone di ogni parte
del mondo”, aggiunge. “Non mi risulta che questo sia
mai stato fatto prima.”[54]
Analoga l’ammirazione espressa da Guy Steele.
Attualmente ricercatore presso la Sun Microsystems, ricorda
Stallman soprattutto come “brillante programmatore con la
capacità di generare notevoli quantità di codice
sostanzialmente privo di errori.” Pur tra le rispettive
incompatibilità caratteriali, i due collaborarono abbastanza
a lungo da permettere a Steele di apprezzare la profondità
dello stile di Stallman nella programmazione. Ne rammenta in
particolare un episodio specifico verso la fine degli anni
’70, quando lavorarono assieme alla stesura della funzione
“pretty print”, per la stampa del codice.
Inizialmente concepita da Steele, tale funzione veniva attivata
dall’ennesima combinazione di tasti che riformattava il
codice sorgente in modo da risultare più leggibile e
occupare meno spazio, esaltandone ulteriormente le qualità
WYSIWIG. Un’opzione sufficientemente strategica da attrarre
l’attivo interesse di Stallman, e non ci volle molto
perché i due ne progettassero insieme una versione
migliorata.
“Una mattina ci sedemmo davanti al monitor”,
ricorda Steele. “Io ero alla tastiera e lui di fianco. Non
aveva problemi a lasciarmi digitare, ma era lui a suggerirmi cosa
fare.”
La sessione durò 10 ore. Durante tutto quel tempo,
aggiunge Steele, né lui né Stallman fecero alcuna
pausa, e nemmeno avviarono qualche breve conversazione. Alla fine
erano riusciti a ridurre il codice per la funzione di stampa a
meno di 100 righe. “Per tutto quel tempo, le mie dita erano
rimaste sulla tastiera”, ricorda Steele, “ma erano le
idee di entrambi a fluire sullo schermo. Lui mi diceva cosa
digitare, e io procedevo.”
La lunghezza della sessione si rese evidente quando finalmente
Steele uscì dal laboratorio. Una volta fuori
dall’edificio al 545 di Tech Square, rimase sorpreso di
trovarsi circondato dal buio della notte. Come programmatore
Steele era abituato a maratone analoghe. Eppure stavolta
c’era qualcosa di diverso. Quel lavoro con Stallman lo
aveva costretto a bloccare ogni stimolo esterno per concentrare
tutte le sue energie mentali sull’unico obiettivo che
avevano davanti. Ripensando a quella circostanza, Steele sostiene
di aver considerato la forza mentale di Stallman esilarante e
terrificante al tempo stesso. “Il mio primo pensiero subito
dopo fu questo: è stata una grande esperienza, molto
intensa, ma non avrei mai voluto ripeterla in vita
mia.”