Una difficile scelta morale
Il 27 settembre 1983 i programmatori che seguivano il
newsgroup net.unix-wizards su Usenet incontrarono un messaggio
insolito. Inserito nelle ore piccole, per l’esattezza
mezz’ora dopo mezzanotte e firmato da rms@mit-oz, appariva con un
oggetto semplice ma accattivante: “Nuova implementazione di
UNIX”. Tuttavia il paragrafo d’apertura del
messaggio, anziché presentare una nuova versione di Unix,
sembrava una chiamata alle armi:
A partire dal prossimo giorno del Ringraziamento inizierò
a scrivere un sistema pienamente compatibile con Unix chiamato
GNU (Gnu’s Not Unix), distribuito gratuitamente a chiunque
vorrà usarlo. Urgono contributi in tempo, denaro, programmi
e attrezzature[55].
Agli occhi di un esperto programmatore Unix il messaggio
appariva come un miscuglio tra idealismo e arroganza. Non
soltanto l’autore voleva ricostruire da capo un sistema
operativo già maturo, ma si proponeva perfino di
migliorarlo. Il nuovo sistema GNU, si spiegava in quel testo,
avrebbe incluso tutti i componenti di base – un elaboratore
testi, un programma shell per far girare le applicazioni
compatibili con Unix, un compilatore e “alcune altre
cose.”[56]. Né sarebbero mancate
diverse opzioni stimolanti, tuttora assenti in Unix:
un’interfaccia grafica basata sul linguaggio di
programmazione Lisp, un file system a prova di blocco e una serie
di protocolli di rete basati sull’infrastruttura utilizzata
al MIT.
“GNU potrà far girare programmi Unix, ma non
sarà un suo duplicato”, spiegava il messaggio.
“Vi apporteremo tutti i miglioramenti ritenuti necessari,
facendo tesoro delle esperienze avute con altri sistemi
operativi.”
A prevenire lo scetticismo di qualche lettore,
l’annuncio sul nuovo sistema operativo era seguito da una
breve biografia dell’autore, intitolata “Chi
sono?”:
Mi chiamo Richard Stallman, creatore dell’originale
EMACS, un elaboratore testi assai imitato, e sono attualmente
nello staff del laboratorio di intelligenza artificiale del MIT.
Ho lavorato a lungo su compilatori, editor, debugger e interpreti
di comandi, sull’Incompatible Time Sharing System e sul
sistema operativo delle Lisp Machines. All’interno
dell’ITS ho ideato il supporto per la visualizzazione
indipendente dal terminale. Inoltre ho implementato un file
system a prova di blocco e due sistemi a finestre per Lisp
Machines[57].
Per un gioco del destino, il progetto GNU così delineato
mancò la data del lancio fissata per il giorno del
Ringraziamento (fine novembre). Ma dal gennaio 1984 Stallman
rispettò la promessa, immergendosi totalmente
nell’ambiente di sviluppo Unix. Per un architetto del
software cresciuto sull’ITS, era un po’ come
progettare grandi magazzini di periferia anziché palazzi
moreschi. Tuttavia anche la realizzazione di un sistema operativo
analogo a Unix presentava dei vantaggi nascosti. L’ITS si
era rivelato assai potente, ma aveva un tallone d’Achille:
gli hacker del MIT l’avevano progettato in modo da trarre
il massimo dal modello PDP. Quando quest’ultimo venne
eliminato, all’inizio degli anni ’80, su decisione
degli amministratori del laboratorio, quel sistema operativo, un
tempo simile a una vibrante metropoli, diventò
improvvisamente una città fantasma. Unix, d’altra
parte, era stato ideato tenendo conto delle opzioni di
mobilità e funzionalità a lungo termine. Sviluppato
originariamente dai giovani ricercatori di AT&T, il programma
era sfuggito al radar delle grandi corporation, trovando felice
dimora nel mondo squattrinato dell’informatica accademica.
Avendo a disposizione risorse inferiori a quelle dei colleghi al
MIT, gli sviluppatori Unix si erano curati di personalizzarlo in
modo da girare su un vasto assortimento di hardware: qualunque
cosa compresa tra il PDP-11 a 16-bit – macchina adatta solo
per piccole attività, secondo la maggioranza degli hacker
nel laboratorio di intelligenza artificiale – e i mainframe
a 32-bit come il VAX 11/780. A partire dal 1983 alcune aziende,
prima fra tutte la Sun Microsystems, avevano iniziato a spingersi
anche oltre, mettendo a punto una nuova generazione di
microcomputer, definiti “workstation”, per sfruttare
la crescente trasferibilità di quel sistema operativo.
Per facilitare questo processo, gli sviluppatori responsabili
delle maggiori versioni di Unix si assicurarono di mantenere un
strato di astrazione in più tra il software e la macchina.
Anziché tagliare su misura il sistema operativo per
sfruttare una macchina specifica – come avevano fatto gli
hacker del laboratorio di intelligenza artificiale con
l’ITS e il PDP-10 – i programmatori Unix optarono per
un approccio più generico e meno specializzato.
Concentrandosi maggiormente sugli standard e le specifiche che
tenevano insieme i numerosi sotto-componenti del sistema,
anziché sui componenti veri e propri, riuscirono a creare un
sistema che poteva essere modificato velocemente per adattarsi ai
gusti di qualunque macchina. Se un utente si lamentava del
funzionamento di una parte, l’adozione di questi standard
rendeva possibile l’estrazione di singole sotto-componenti
e la loro correzione o sostituzione con qualcosa di meglio. In
sintesi, quel che mancava a Unix sotto l’aspetto dello
stile o dell’estetica veniva più che ricompensato
dalla flessibilità ed economicità, che ne garantirono
la rapida adozione[58].
La decisione di Stallman di avviare lo sviluppo del sistema
GNU venne provocata dalla fine di quel sistema ITS che gli hacker
del laboratorio avevano coltivato così a lungo. La sua
scomparsa si rivelò un colpo traumatico per Stallman.
Avvenuta sulla scia dell’episodio della stampante laser
Xerox, tale scomparsa offrì un’ulteriore prova del
fatto che la cultura hacker stesse perdendo la propria
immunità nei confronti di quelle pratiche commerciali
tipiche del mondo esterno.
Come per il codice del software su cui era basato, le radici
che portarono all’estinzione dell’ITS andavano
cercate nel recente passato. Negli anni successivi alla guerra
del Vietnam i fondi a disposizione del Ministero della Difesa, da
tempo maggior finanziatore della ricerca informatica, avevano
subito drastiche riduzioni. Nella disperata ricerca di nuovi
contributi, laboratori e università si erano così
rivolti al settore privato. Per il laboratorio di intelligenza
artificiale, ottenere il sostegno degli investitori privati si
rivelò un gioco da ragazzi. Già sede di alcuni dei
progetti più ambiziosi del dopoguerra, il laboratorio
divenne rapidamente un’incubatrice di tecnologia. In
realtà a partire dal 1980 la maggioranza dello staff
interno, compresi numerosi hacker, divideva il proprio tempo tra
il MIT e vari progetti commerciali.
Quel che inizialmente pareva un patto vincente per entrambi i
fronti – gli hacker lavoravano su progetti
d’avanguardia e in cambio potevano utilizzare le tecnologie
più aggiornate – si rivelò presto una sorta di
patto Faustiano. Più era il tempo dedicato a tali progetti
commerciali, e meno ne rimaneva per il mantenimento della barocca
infrastruttura del laboratorio. Le aziende iniziarono poi ad
assumere direttamente gli hacker nel tentativo di monopolizzarne
tempo e attenzione. Con la diminuzione degli hacker presenti,
divenne sempre più difficile assicurare la corretta gestione
di macchine e programmi. Ancor peggio, sostiene Stallman, il
laboratorio iniziò a subire un “mutamento
demografico”. Gli hacker che una volta costituivano una
rumorosa minoranza stavano perdendo aderenti mentre “quei
professori e studenti a cui non piaceva granché [il PDP-10]
erano numerosi come sempre”[59]. Il punto di
rottura si manifestò nel 1982. Fu in quell’anno che
l’amministrazione decise di procedere con
l’aggiornamento del computer centrale, il PDP-10. La casa
produttrice, Digital, aveva messo fuori commercio quel modello.
Pur offrendo ancora un mainframe di alta potenza, denominato
KL-10, questo richiedeva una drastica operazione di riscrittura
dell’ITS, nel caso gli hacker volessero
“portare” quel sistema operativo sulla nuova
macchina. Temendo che il laboratorio avesse perso la massa
critica di programmatori di talento, i membri di facoltà
spinsero per Twenex, un sistema operativo commerciale realizzato
da Digital. Rimasti in minoranza, agli hacker non rimase altra
scelta che adeguarsi.
“Mancando gli hacker capaci di mantenere il sistema, [i
membri di facoltà] dissero ‘ci aspetta il disastro,
meglio dotarci di un software commerciale’”,
così avrebbe ricordato Stallman dopo qualche anno.
“Aggiungevano, ‘in tal modo alla manutenzione ci
penserà la casa produttrice.’ Purtroppo si sbagliavano
di grosso, ma presero comunque quella decisione.”[60]
All’inizio gli hacker considerarono il sistema Twenex
come un ulteriore simbolo autoritario che andava sovvertito. Il
nome stesso suscitava un grido di protesta. Ufficialmente
chiamato TOPS-20 dalla Digital, si trattava del successore del
TOPS-10, il sistema operativo commercializzato per il PDP-10. La
Bolt Beranek & Newman ne aveva messo a punto una versione
migliorata, nota come Tenex.[61] Da qui derivò Twenex,
termine coniato da Stallman per evitare di usare il nome
originale TOPS-20. “Il sistema era ben lungi
dall’essere uno dei migliori (“top”), per cui
mi rifiutai di chiamarlo in quel modo.” ricorda Stallman.
“Decisi perciò di inserire una ‘w’ nel
nome e venne fuori Twenex.”
Alla macchina su cui girava il Twenex/TOPS-20 venne affibbiato
un diminuitivo altrettanto sarcastico: Oz. Secondo una leggenda
hacker, il computer richiedeva un macchina più piccola, il
PDP-11, per attivare il proprio terminale. Uno degli hacker,
trovandosi davanti per la prima volta alle impostazioni del
KL-10-PDP-11, li paragonò alla roboante introduzione de
Il Mago di Oz. “Io
sono il grande e potente Oz”, intonò l’hacker.
“Non prestate alcuna attenzione al PDP-11 nascosto dietro
quella console.”[62] Tuttavia la risata con cui gli
hacker accolsero il KL-10 svanì non appena ebbero dato
un’occhiata a Twenex. Non soltanto il sistema vantava
opzioni interne di sicurezza, ma queste facevano da sottofondo a
ogni strumento e applicazione realizzati dagli ingegeneri
responsabili della progettazione. Quello che una volta sembrava
un gioco tra gatto e topo sulle password nel sistema di sicurezza
del laboratorio d’informatica, si era trasformato in una
vera e propria battaglia sulla gestione del sistema. Secondo gli
amministratori, una volta privato delle opzioni di sicurezza Oz
sarebbe risultato più suscettibile a blocchi accidentali.
Per gli hacker, invece, la migliore prevenzione di tali blocchi
consisteva nel modificare il codice originale. Purtroppo il
numero di hacker dotati di tempo e capacità per farlo si era
ridotto a tal punto che fu la tesi degli amministratori a
prevalere.
Scroccando le password altrui e provocando deliberatamente il
blocco del sistema come prova dei problemi che ne derivavano,
Stallman riuscì a frustrare i tentativi degli amministratori
di esercitare pieno controllo sul sistema. Dopo un fallito
“colpo di stato”, Stallman diffuse un messaggio di
allerta all’intero staff del laboratorio[63]:
“C’è stato un altro tentativo di conquistare
il potere”, si leggeva nel testo. “Per ora gli
assalti dell’aristocrazia sono stati respinti.” A
tutela della propria identità, Stallman firmò il
messaggio come “Radio Free OZ.”
Un camuffamento piuttosto debole. Già dal 1982 la sua
avversione per ogni password e segretezza era talmente nota che
gli utenti esterni al laboratorio ne usavano l’account come
ponte per raggiungere ARPAnet, la rete informatica per la ricerca
cui si devono le fondamenta dell’odierna Internet.
All’inizio degli anni ’80 tra questi
“turisti” c’era anche Don Hopkins,
programmatore californiano informato dal giro hacker che per
accedere al mitico sistema ITS del MIT bastava inserire le
iniziali RMS come login e lo stesso monogramma per la relativa
password.
“Sarò eternamente grato al MIT per aver consentito
al sottoscritto e a molta altra gente il libero accesso a quelle
macchine”, afferma Hopkins. “Per parecchi di noi
ciò è stato davvero importante.”
Questa politica riservata ai “turisti”,
apertamente tollerata dagli amministratori del MIT durante gli
anni del sistema ITS[64], subì un duro contraccolpo
quando Oz divenne il collegamento primario tra il laboratorio e
ARPAnet. Inizialmente Stallman continuò nella pratica di
ripetere i medesimi login e password in modo che gli utenti
esterni potessero imitarlo. Tuttavia, con l’andar del tempo
la fragilità di Oz costrinse gli amministratori a impedire
l’accesso agli estranei, i quali, sia per puro caso sia con
intenti dolosi, potevano bloccare il sistema. Quando finalmente
gli stessi amministratori imposero a Stallman di smetterla di
diffondere la propria password, egli rifiutò di aderire
sulla base dell’etica personale e smise completamente di
usare Oz[65].
“[Quando] le password fecero la loro comparsa al
laboratorio di intelligenza artificiale del MIT [decisi] di
seguire le mie convinzioni contrarie all’esistenza di
password”, avrebbe spiegato in seguito Stallman.
“Poiché non credo sia auspicabile dotare un computer
delle opzioni di sicurezza, non ho intenzione di avvallare
l’esistenza di un siffatto regime.”[66]
Quel rifiuto di inchinarsi di fronte al grande e potente Oz
simbolizzava la crescente tensione tra gli hacker e la direzione
del laboratorio nei primi anni ’80. Una tensione che
tuttavia impallidiva in raffronto al conflitto in corso
all’interno della stessa comunità hacker. Con
l’arrivo del KL-10, questa appariva già spaccata su
due fronti contrapposti. Il primo ruotava intorno a
un’azienda di software nota come Symbolics, Inc. Il secondo
invece ne appoggiava il diretto rivale, Lisp Machines, Inc.
(LMI). Entrambe le società erano in lotta per lanciare sul
mercato la Lisp Machine, dispositivo costruito per sfruttare al
meglio il linguaggio di programmazione Lisp.
Creato dal pioniere degli studi sull’intelligenza
artificiale John McCarthy, ricercatore presso il MIT sul finire
degli anni ’50, il Lisp è un linguaggio elegante e
appropriato per programmi finalizzati a poderosi lavori di
classificazione e smistamento. Il nome è la versione
contratta di LISt Processing. Dopo il passaggio di McCarthy al
laboratorio di intelligenza artificiale di Stanford, gli hacker
del MIT lo perfezionarono in un dialetto locale soprannominato
MACLISP. Il prefisso “MAC” si riferiva al progetto
MAC finanziato dal DARPA, da cui nacquero poi il laboratorio di
intelligenza artificiale e quello di computer science. Sotto la
guida dell’abile hacker Richard Greenblatt, nel corso degli
anni ’70 i programmatori del laboratorio di intelligenza
artificiale misero a punto un intero sistema operativo basato su
Lisp, chiamato in seguito sistema operativo Lisp Machine. Nel
1980, il progetto si era già diviso in due derivazioni
commerciali: alla direzione della Symbolics c’era Russell
Noftsker, già amministratore del laboratorio, mentre la Lisp
Machines, Inc. (LMI) era guidata da Greenblatt.
Il software per la Lisp Machine era dovuto a quei primi
hacker, ovvero la proprietà spettava al MIT pur rimanendo a
disposizione di chiunque volesse copiarlo, nel pieno rispetto
della tradizione hacker. Una pratica questa che limitava
l’attività commerciale di qualunque impresa volesse
ottenere la licenza di un programma del MIT per poi lanciarlo sul
mercato come prodotto specifico. Per assicurarsi qualche
vantaggio, ed esaltare gli aspetti del sistema operativo che
potessero meglio attrarre i consumatori, le aziende ingaggiarono
diversi hacker del laboratorio mettendoli all’opera su
particolari componenti del sistema operativo per la Lisp Machine
al di fuori degli auspici del laboratorio stesso.
La più aggressiva in tal senso si dimostrò la
Symbolics. Entro la fine del 1980, questa aveva assunto 14
addetti del laboratorio come consulenti part-time per sviluppare
la sua versione della Lisp Machine. Tranne Stallman, gli altri
firmarono invece con la LMI[67].
Inizialmente Stallman sembrò accettare i tentativi
commerciali di entrambe le aziende, anche se ciò comportava
una maggiore mole di lavoro per lui. Entrambe ottennero dal MIT
la licenza per i sorgenti, ed era compito di Stallman aggiornare
la Lisp Machine del laboratorio per tener dietro alle innovazioni
più recenti. Nonostante la licenza ottenuta dalla Symbolics
consentisse a Stallman il diritto di rivederne il codice, ma non
di copiarlo, egli sostiene che un “gentleman’s
agreement” tra la direzione della Symbolics e il
laboratorio gli permetteva di prendere in prestito i frammenti
più interessanti nel tipico stile hacker.
Il 16 marzo 1982, una data che Stallman rammenta bene
perché era il suo compleanno, i dirigenti della Symbolics
decisero di porre fine a quell’accordo tra gentiluomini. Si
trattava di una manovra chiaramente strategica. La LMI, diretta
concorrente per il mercato della Lisp Machine, sostanzialmente
utilizzava la copia del sistema in dotazione al laboratorio di
intelligenza artificiale. Anziché foraggiare la crescita del
diretto concorrente, la Symbolics impose la stretta osservanza
del testo della licenza. Se il laboratorio voleva tenere
aggiornato il proprio sistema operativo con quello della
Symbolics doveva utilizzare una macchina di quest’ultima e
tagliare ogni rapporto con la LMI.
Stallman, responsabile del mantenimento della Lisp Machine del
laboratorio, era furibondo. Considerando la decisione come un
“ultimatum”, replicò con la disconnessione del
canale di comunicazione a microonde tra la Symbolics e il
laboratorio stesso. Poi giurò a se stesso che non avrebbe
mai lavorato su una macchina della Symbolics e si schierò
apertamente a favore della LMI. “Dal mio punto di vista il
laboratorio era un paese neutrale, come il Belgio durante la
prima guerra mondiale”, spiega Stallman. “Ma se la
Germania invade il Belgio, allora questo dichiara guerra alla
Germania e si allea con Francia e Inghilterra.”
Le circostanze della cosiddetta “guerra della
Symbolics” del 1982-1983 variano parecchio a seconda delle
fonti interpellate. Quando i dirigenti dell’azienda si
accorsero che le funzioni più recenti continuavano ad
apparire nella Lisp Machine del laboratorio, per poi estendersi
alla versione della LMI, decisero di installare un
“programma-spia” nel computer di Stallman. Questi
sostiene di aver riscritto ogni funzione da zero, approfittando
della clausola relativa alla revisione del codice, ma avendo poi
cura di riscriverlo in maniera differente per quanto possibile. I
dirigenti della Symbolics la pensarono in maniera opposta e
portarono il caso all’attenzione degli amministratori del
MIT. Stando al libro The Brain Makers:
Genius, Ego, and Greed, and the Quest for Machines That
Think, scritto nel 1984 da Harvey Newquist,
l’amministrazione rispose invitando Stallman a
“tenersi alla larga” dal progetto della Lisp
Machine[68]. Secondo Stallman, invece, gli
amministratori del MIT gli diedero man forte. “Non subii
alcuna pressione”, sostiene. “Decisi però di
apportare delle modifiche a quella pratica. Per essere
ultra-sicuro, non leggevo più il loro codice. Usavo soltanto
la documentazione e procedevo a partire da quella.”
Comunque sia, la lite non fece altro che rafforzare la
posizione di Stallman. Senza rivedere il codice, colmò ogni
lacuna seguendo i gusti personali e coinvolse gli altri del
laboratorio nella tempestiva segnalazione di eventuali problemi.
Si assicurò, inoltre, che i programmatori della LMI avessero
accesso diretto ai cambiamenti apportati. “Avevo deciso di
punire la Symbolics, fosse stata l’ultima azione della mia
vita”, dice Stallman.
Si tratta di un’affermazione rivelatrice, non soltanto
perché getta luce sull’indole non-pacifista di
Stallman, ma anche perché riflette l’intenso livello
emotivo suscitato dal conflitto. Secondo un altro articolo citato
da Newquist, ad un certo punto Stallman sembrò talmente
fuori di sé che diffuse una e-mail in cui minacciava di
“imbottirsi di dinamite per poi entrare negli uffici della
Symbolics.”[69] Pur negando alcun ricordo di
tale e-mail e descrivendone l’eventuale esistenza come una
“voce maligna”, Stallman riconosce tuttavia che un
simile pensiero gli attraversò la mente. “Pensavo
veramente di uccidermi e distruggere così la loro
sede”, ricorda. “Credevo che la mia vita fosse
finita.”[70]
Un simile livello di disperazione è dovuto a quello che
Stallman interpretava come la “distruzione della propria
casa”, ovvero la fine della cultura hacker tipica del
laboratorio di intelligenza artificiale. In una successiva
intervista via e-mail con Levy, Stallman si paragonò alla
figura storica di Ishi, ultimo sopravvissuto della tribù
Yahi, spazzata via dalle guerre contro gli indiani
d’America in California nel periodo 1860-1870.
L’analogia dipinge la posizione di Stallman in termini
epici, quasi mitologici. In realtà tende però a
mascherare la tensione tra lo stesso Stallman e gli altri hacker
del laboratorio, una tensione preesistente allo scisma
Symbolics-LMI. Anziché vedere la Symbolics come una potenza
di sterminio, molti colleghi consideravano appropriata
quell’iniziativa. Con il lancio sul mercato della Lisp
Machine, l’azienda spinse i principi hacker sulla
progettazione ingegneristica del software al di fuori della torre
d’avorio del laboratorio, per raggiungere un mercato
imprenditoriale in cui vigeva la progettazione manageriale. Lungi
dal considerare Stallman un bastione etico, non pochi hacker lo
giudicavano una figura inutile e anacronistica.
Stallman non contesta questa diversa spiegazione degli eventi.
Aggiunge anzi un ulteriore motivo a spiegazione del clima di
ostilità suscitato dall’“ultimatum” della
Symbolics. Ancor prima che quest’ultima assumesse gran
parte dello staff del laboratorio, secondo Stallman molti di loro
avevano già iniziato ad emarginarlo. “Non venivo
più invitato ad andare a Chinatown”, ricorda.
“Stando all’usanza lanciata da Greenblatt, prima di
andare fuori a cena si chiedeva o si mandava un messaggio di
invito a tutti nel laboratorio. A un certo punto verso il
1980-1981, la mia presenza non venne più richiesta. Non
soltanto avevano smesso d’invitarmi, ma in seguito qualcuno
mi confessò di aver ricevuto pressioni affinché
mentisse pur di tenermi all’oscuro di tutto.”
Nonostante l’ira di Stallman nei confronti degli hacker
che avevano orchestrato questa forma di meschino ostracismo, la
controversia con la Symbolics sembrò suscitargli una rabbia
di tipo nuovo, quella di una persona prossima a vedersi privata
del proprio tetto. Quando la Symbolics smise di inviare i
cambiamenti apportati man mano al codice, per tutta risposta
Stallman si rinchiuse in ufficio per riscrivere da capo ogni
nuova funzione e strumento. Per quanto frustrante, ciò
garantiva ai futuri utenti della Lisp Machine il pieno accesso
alle medesime funzioni già disponibili a quanti seguivano la
Symbolics.
Quel lavoro assicurava altresì il consolidamento della
fama leggendaria guadagnata da Stallman all’interno della
comunità hacker. Già assai nota per i contributi con
l’Emacs, la sua abilità di tener testa
all’intero gruppo di programmatori della Symbolics –
tra i quali erano presenti non pochi hacker già leggendari
– rimane tuttora uno dei maggiori successi umani
dell’era dell’informazione, o di ogni altra epoca,
per quel che possa valere. Definendolo “maestro
dell’hacking” e “il John Henry virtuale del
codice”, lo scrittore Steven Levy fa notare come molti dei
suoi rivali assunti dalla Symbolics non ebbero altra scelta che
rendere omaggio al loro ex-collega idealista. Levy cita Bill
Gosper, un hacker che alla fine andò a lavorare
nell’ufficio della Symbolics a Palo Alto, il quale si
dichiara colpito dalla qualità dell’operato di
Stallman in quel frangente:
Dopo aver dato un’occhiata a qualcosa scritto da
Stallman, potevo anche decidere che fosse scadente (probabilmente
non lo era, ma diciamo che qualcuno mi avesse convinto del
contrario), eppure non avrei fatto a meno di notare, ‘Un
momento, però, Stallman non ha nessuno che lo aiuta o con
cui discutere per tutta la notte. Lavora completamente da solo!
È incredibile che qualcuno possa fare tutto ciò in
completa solitudine!”[71]
Per Stallman, i mesi trascorsi a rincorrere la Symbolics
evocano un misto tra orgoglio e profonda tristezza. In quanto
persona di tendenze liberali il cui padre combatté nella
seconda guerra mondiale, Stallman non può definirsi
pacifista. Sotto molti aspetti, la guerra con la Symbolics va
considerata un rito di passaggio verso il quale andava
dirigendosi fin dal suo arrivo al laboratorio un decennio prima.
Allo stesso tempo, tuttavia, l’episodio coincideva con la
traumatica distruzione di quella cultura hacker in cui si era
cullato fin dall’adolescenza. Un giorno, durante un pausa
da quel lavoro, Stallman visse un’esperienza traumatica
nella stanza che ospitava le macchine del laboratorio. Mentre si
sgranchiva le gambe, finì per imbattersi nella massiccia
struttura inutilizzata del PDP-10. Davanti a quelle spie ormai
fuori uso, spie che una volta si accendevano e si spegnevano
continuamente ad indicare lo stato del programma interno,
Stallman subì un impatto emotivo analogo a quello che si
prova di fronte al cadavere ben conservato di una persona
cara.
“Sono scoppiato a piangere in quella stanza”,
ricorda. “Vedere lì quella macchina, morta, senza
nessuno a prendersene cura, una scena che rifletteva la totale
distruzione della mia comunità.”
Stallman avrebbe avuto poco tempo per il rimpianto. La Lisp
Machine, nonostante tutto il furore suscitato e il gran lavoro
richiesto, non costituiva altro che un evento collaterale tra le
grandi battaglie in corso nel mercato della tecnologia. Il ritmo
frenetico della miniaturizzazione del computer stava dando vita a
microprocessori rinnovati e più potenti che avrebbero presto
incorporato le capacità hardware e software in un'unica
macchina, al pari di una moderna metropoli che riesce ad
inghiottire un antico villaggio del deserto.
Su tali microprocessori giravano centinaia, persino migliaia,
di programmi commerciali, ciascuno protetto da un mosaico di
licenze d’uso e di accordi di non divulgazione, che
impedivano agli hacker l’accesso o la condivisone del
codice sorgente. Le licenze erano grezze e inadeguate, ma dal
1983 erano diventate abbastanza precise da soddisfare i tribunali
e spaventare possibili “malintenzionati”. Il
software, una volta considerato una sorta di decorazione
aggiuntiva offerta dai produttori di hardware per rendere
più appetitosi i loro costosi computer, stava diventando
rapidamente il piatto forte. Sempre più alla ricerca di
nuovi giochi e di nuove funzioni, gli utenti andavano
dimenticando la tradizionale richiesta di poter dare
un’occhiata alla ricetta, una volta concluso il pasto.
Lo scenario si evidenziava con maggior forza nel mondo del
personal computer. Aziende come Apple Computer e Commodore
stavano creando nuovi milionari vendendo macchine con sistema
operativo incorporato. Ignorando la cultura hacker e il suo
rifiuto per il software in solo formato binario, buona parte
dell’utenza non vedeva alcun motivo per protestare quando
tali aziende facevano a meno di allegare i file con il codice
sorgente. Alcuni anarchici aderenti all’etica hacker
tentarono di trovare un varco per quelle norme etiche
all’interno del nuovo mercato in fieri, ma per lo più
quest’ultimo ricompensava i programmatori abbastanza veloci
da sfornare programmi sempre nuovi e sufficientemente scaltri da
registrarli come opere d’ingegno posti sotto la tutela
legale del copyright.
Uno dei più famosi tra questi programmatori era Bill
Gates, il quale aveva abbandonato Harvard due anni dopo la laurea
di Stallman. A quei tempi i due non si conoscevano, ma già
sette anni prima che Stallman inviasse quel messaggio al
newsgroup net.unix-wizards, Gates – giovane imprenditore e
partner dell’azienda software Micro-Soft, successivamente
divenuta Microsoft, con base ad Albuquerque, New Mexico –
aveva fatto girare una lettera aperta nella comunità degli
sviluppatori. Scritta in replica a quegli utenti di PC che
copiavano i programmi della Micro-Soft, la “Lettera aperta
agli hobbisti” mirava a colpire l’idea stessa dello
sviluppo comunitario del software.
“Chi può permettersi di lavorare a livello
professionale senza essere retribuito?”, chiedeva Gates.
“Quale hobbista è in grado di dedicare tre anni di
lavoro per un programma, sistemarne ogni problema, documentarlo
adeguatamente per poi distribuirlo gratuitamente?”[72]
Anche se soltanto pochi hacker del laboratorio
d’intelligenza artificiale notarono quel testo nel 1976, la
lettera di Gates rappresentava il mutato atteggiamento verso il
software sia tra le aziende sia tra gli sviluppatori di ambito
commerciale. Perché considerare il software come un bene a
costo zero quando il mercato stabiliva il contrario? Nel periodo
a cavallo tra la fine degli anni ’70 e l'inizio del
decennio successivo, la vendita di programmi informatici divenne
ben più di un modo per recuperare le spese iniziali; si
trattava di una dichiarazione politica. In un periodo in cui
negli Stati Uniti l’amministrazione Reagan si affrettava ad
allentare molte restrizioni federali nonché quei freni alla
spesa pubblica imposti durante il mezzo secolo seguito alla
Grande Depressione, parecchi programmatori consideravano
l’etica hacker contraria alla competizione commerciale e,
per estensione, anti-americana. Al massimo veniva considerata
come il ritorno a posizioni anti-corporation tipiche di fine anni
’60 e primi ’70. Al pari di un banchiere di Wall
Street che ritrovava una maglietta dai colori psichedelici tra
camicie dal colletto inamidato e vestiti a doppio petto, parecchi
programmatori trattavano l’etica hacker come un
imbarazzante ricordo di un periodo idealista del passato.
Per qualcuno che aveva trascorso l’intero arco degli
anni ’60 come un inquieto ritorno al decennio precedente,
Stallman non sembrava affatto preoccupato di vivere al di fuori
della cerchia dei colleghi. Da programmatore abituato a lavorare
con le macchine e i software più aggiornati, tuttavia, si
trovava di fronte quella che può essere definita soltanto
come “una difficile scelta morale”: lasciar perdere
le obiezioni etiche contro il software “proprietario”
– il termine usato da Stallman e dagli altri hacker per
descrivere qualunque programma contenesse un copyright privato
oppure una licenza d’uso che ne limitasse la copia e la
modifica – oppure dedicare la propria esistenza alla
costruzione di un sistema alternativo, non proprietario, per il
software. Fu questa seconda ipotesi ad attirare maggiormente
Stallman, visti anche i recenti mesi di traversie con la
Symbolics. “Credo che a quel punto avrei potuto smettere
definitivamente di occuparmi di computer”, aggiunge.
“Pur mancando di doti particolari, sono certo che avrei
potuto fare il cameriere. Non in un ristorante di classe,
probabilmente, ma un posto l’avrei trovato.”
Fare il cameriere – o meglio, smettere di lavorare alla
programmazione informatica – avrebbe significato
abbandonare completamente un’attività che gli aveva
dato soddisfazioni enormi. Ripensando alle sue giornate dopo
l’arrivo a Cambridge, Stallman identificava senza problemi
lunghi periodi in cui la programmazione aveva costituito
l’unico suo piacere. Anziché mollare decise
perciò d’insistere.
Da ateo convinto, Stallman rifiuta l’idea di destino, di
dharma o di un richiamo divino nella vita. Ciò nonostante,
considera una scelta naturale quella decisione di lottare contro
il software proprietario e di realizzare un sistema operativo per
spingere gli altri a seguire il suo esempio. Dopo tutto era stata
la combinazione tra testardaggine, lungimiranza e virtuosismo
nella programmazione a condurlo davanti a un bivio di cui molta
gente non conosceva neppure l’esistenza. Nel descrivere la
sua decisione in un capitolo contenuto nel volume del 1999 Open Sources, Stallman cita la
spiritualità contenuta nelle parole del sapiente ebraico
Hillel[73]:
Se non sono per me stesso, chi sarà per me?
E se sono solo per me stesso, che cosa sono?
E se non ora, quando?
Negli interventi pubblici preferisce però evitare ogni
riferimento religioso e illustra quella svolta in termini
pragmatici. “Mi son chiesto: cosa posso fare, in quanto
sviluppatore di sistemi operativi, per migliorare la situazione?
Dopo un’attenta valutazione, mi resi conto del fatto che
per risolvere il problema occorreva proprio uno sviluppatore di
sistemi operativi.”
Una volta presa quella decisione, aggiunge Stallman, tutto il
resto “andò a posto da solo.” Si sarebbe
astenuto dall’utilizzare programmi che lo costringevano a
scendere a patti con le proprie scelte morali, mentre al contempo
si sarebbe dedicato a facilitare le cose per chiunque avesse
voluto seguirne l’esempio. Dopo aver giurato di voler
costruire un sistema operativo libero e gratuito “oppure di
morire provandoci – di vecchiaia, naturalmente”,
ironizza Stallman, rassegnò le proprie dimissioni dallo
staff del MIT nel gennaio 1984 per dedicarsi interamente al
progetto GNU.
Quel gesto portò alla fine della protezione legale del
MIT per ogni lavoro di Stallman. Tuttavia egli aveva ancora
abbastanza amici al laboratorio da poter mantenere un proprio
ufficio senza dover pagare alcun affitto. Riuscì anche ad
assicurarsi qualche giro di consulenze per finanziare
l’avvio del progetto GNU. Tuttavia quelle dimissioni
significavano anche, da parte sua, la negazione di qualsiasi
discussione sul conflitto d’interessi sul software o sulla
proprietà dello stesso da parte del MIT. Colui che da
giovane era caduto sempre più profondamente nelle braccia
del laboratorio d’intelligenza artificiale a causa del
proprio isolamento sociale, stava ora erigendo un muro legale tra
se stesso e quell’ambiente.
Nei mesi immediatamente successivi, Stallman operò in
isolamento anche rispetto alla comunità Unix. Nonostante
l’annuncio apparso sul newsgroup net.unix-wizards avesse
provocato risposte di sostegno, in questa fase iniziale furono
pochi i volontari che decisero di aggregarsi alla crociata.
“La reazione della comunità si rivelò alquanto
uniforme”, ricorda Rich Morin, allora leader di uno
user-group dedicato a Unix. “La gente diceva: ‘Oh,
davvero un’ottima idea. Facci vedere il codice. Mostraci
che si può fare.’”
Seguendo la tipica tradizione hacker, Stallman iniziò a
cercare programmi e strumenti già esistenti da inserire
all’interno di GNU. Uno dei primi fu un compilatore
chiamato VUCK, che convertiva i programmi scritti nel diffuso
linguaggio C in un codice comprensibile per la macchina. Tradotto
dall’olandese, l’acronimo del nome stava per Free
University Compiler Kit. Ottimista, Stallman chiese
all’autore se il programma fosse libero. Quando questi lo
informò che “Free University” era solo il
riferimento alla Vrije Universiteit di Amsterdam, Stallman rimase
deluso.
“Mi rispose in tono canzonatorio, dicendo che
l’università era libera ma non il compilatore”,
rammenta Stallman. “Decisi allora che il mio primo
programma per il progetto GNU sarebbe stato un compilatore valido
per più linguaggi e piattaforme.”[74]
Alla fine Stallman trovò il compilatore Pastel[75]
scritto dagli sviluppatori del Lawrence Livermore National Lab.
Per quanto ne sapesse a quel tempo, tale compilatore era
liberamente copiabile e modificabile. Purtroppo aveva un difetto
sostanziale: salvava ogni programma nella memoria di base,
rubando così spazio prezioso per altre attività. Sui
sistemi mainframe il difetto poteva essere perdonabile, ma
rappresentava una barriera insormontabile su macchine Unix,
troppo piccole per poter gestire i grossi file in tal modo
generati. Inizialmente Stallman compì rapidi progressi,
grazie alla costruzione di un supporto compatibile con il
linguaggio C. Tuttavia con l’arrivo dell’estate fu
costretto a concludere che avrebbe dovuto scrivere un nuovo
compilatore partendo completamente da zero.
Nel settembre 1984, Stallman mise momentaneamente da parte lo
sviluppo del compilatore e iniziò a cercare qualche frutto a
portata di mano. Cominciò a sviluppare una versione GNU di
Emacs, il programma che aveva curato per oltre un decennio. Si
trattava di una decisione strategica. All’interno della
comunità Unix, esistevano due elaboratori testi originali:
vi, scritto dal
co-fondatore della Sun Microsystems Bill Joy, e ed, realizzato dal ricercatore
dei Bell Labs (e co-autore di Unix) Ken Thompson. Entrambi erano
utili e diffusi, ma nessuno dei due offriva la possibilità
di espandersi all’infinito propria dell’Emacs.
Riscrivendo quest’ultimo per l’utenza Unix, Stallman
avrebbe avuto maggiori probabilità di evidenziare le proprie
abilità. Sembrava inoltre ragionevole ritenere che gli
utenti dell’Emacs fossero in sintonia con la mentalità
di Stallman.
Ripensando a quella decisione, Stallman non ci vide nulla di
strategico. “Volevo un Emacs, ed avevo un’ottima
opportunità per curarne lo sviluppo.”
Ancora una volta l’idea di dover reinventare la ruota fa
a pugni con la sensibilità dell’hacker efficiente.
Lavorando alla versione Unix dell’Emacs, Stallman si
trovò presto a seguire le orme di James Gosling, laureando
presso la Carnegie Mellon nonché autore di una versione in C
chiamata Gosling Emacs o GOSMACS. Questa includeva un interprete
basato su un derivato semplificato del linguaggio Lisp noto come
MOCKLISP. Deciso ad usufruire di una struttura analoga, Stallman
prese copiosamente in prestito le innovazioni di Gosling.
Nonostante il GOSMACS fosse sotto copyright e l’autore ne
avesse venduto i diritti alla UniPress, azienda privata di
software, Stallman prese per buone le assicurazioni fornitegli da
un collega che aveva partecipato alle prime lavorazioni di
MOCKLISP. Secondo quest’ultimo, Gosling, all’epoca
prossimo al dottorato presso la Carnegie Mellon, aveva assicurato
i suoi collaboratori che il loro lavoro sarebbe rimasto
liberamente accessibile all’esterno. Ma quando la UniPress
venne a conoscenza del progetto di Stallman minacciò di
imporre il proprio copyright. Ancora un volta Stallman si trovava
di fronte alla prospettiva di dover ricominciare tutto da
capo.
Mentre lavorava alla ricostruzione dell’interprete di
Gosling, Stallman finì col crearne uno nuovo perfettamente
funzionale, mettendo così in discussione l’uso di
quello originale. Tuttavia, il concetto per cui gli sviluppatori
potessero vendere i diritti sul software lo faceva soffrire
– o meglio, era soprattutto l’idea secondo cui uno
sviluppatore fosse proprietario di diritti da poter rivendere
agli altri. In un intervento del 1986 presso lo Swedish Royal
Technical Institute, citò l’incidente della UniPress
come ulteriore esempio dei pericoli associati con il software
proprietario.
“Talvolta credo che una delle cose migliori che potrei
fare in vita mia sarebbe quella di trovare una quantità
enorme di software proprietario protetto da segreto commerciale,
e iniziare a distribuirne copie agli angoli delle strade,
così da infrangere tale segreto”, disse Stallman.
“Forse questa sarebbe una maniera molto più efficace
per offrire alla gente nuovi programmi di software libero,
anziché mettermi a scriverli; ma avrebbero tutti troppa
paura anche soltanto a prendere quelle copie.”[76]
Nonostante l’inevitabile tensione, a lungo andare la
disputa sulle innovazioni di Gosling si sarebbe rivelata
d’aiuto sia per Stallman sia per il movimento del software
libero. Avrebbe intanto costretto il primo a considerare le
debolezze della comune dell’Emacs e del sistema di fiducia
informale che aveva consentito l’emergere di diramazioni
problematiche. Lo avrebbe inoltre obbligato a focalizzare meglio
gli obiettivi politici del movimento del software libero. Nel
1985, dopo l’uscita di GNU Emacs, Stallman redasse
“Il Manifesto GNU”, versione ampliata
dell’annuncio originale apparso nel settembre 1983. Il
documento conteneva una lunga sezione dedicata alle svariate
argomentazioni portate da programmatori commerciali e accademici
a giustificazione della proliferazione del software proprietario.
Una di queste tesi – “i programmatori non meritano
forse una ricompensa per la loro creatività?” –
ottenne una risposta che rifletteva la collera di Stallman verso
il recente episodio sull’Emacs di Gosling:
“Se c’è qualcosa che merita una ricompensa,
questo è il contributo sociale”, scrisse Stallman.
“La creatività può ritenersi un contributo
sociale ma soltanto finché la società sia libera di
usarne i risultati. Se i programmatori meritano di essere
ricompensati per la creazione di programmi innovativi, secondo lo
stesso criterio meritano di essere puniti quando invece ne
limitano l’utilizzo.”[77]
Con la diffusione del GNU Emacs, finalmente il progetto poteva
mostrare del codice ben fatto. Ciò diede inoltre avvio alla
tipica attività imprenditoriale basata sul software. Man
mano che aumentavano gli sviluppatori Unix che iniziavano a
giocare con il software, ecco arrivare regali, offerte in denaro
e richieste di ulteriori copie su nastro. Ad occuparsi del lato
commerciale del progetto GNU Stallman chiamò qualche
collega, formalizzando così la nascita della Free Software
Foundation (FSF), organizzazione nonprofit dedita a velocizzare
il raggiungimento degli obiettivi del progetto GNU. Con Stallman
in funzione di presidente e vari amici hacker nel direttivo, la
FSF contribuì a fornire la necessaria professionalità
al progetto GNU.
Robert Chassell, allora programmatore presso la Lisp Machines,
Inc., divenne uno dei cinque membri del direttivo dopo una
conversazione a cena con Stallman. Chassell operava anche in
quanto tesoriere, ruolo inizialmente modesto, ma cresciuto in
tutta rapidità.
“Credo che nel 1985 il volume totale tra uscite ed
entrate fosse intorno ai 23.000 dollari”, ricorda Chassell.
“Richard aveva il suo ufficio, per il resto ci
arrangiavamo. Misi tutta la roba, soprattutto i nastri, sotto la
mia scrivania. Soltanto più tardi la LMI ci affittò
qualche spazio dove riporre nastri e altro materiale
necessario.”
Oltre a garantire maggiore rispettabilità
all’esterno, la Free Software Foundation si pose come
centro di gravità per altri programmatori insoddisfatti. Il
mercato Unix, ristretto all’ambito accademico anche
all’epoca dell’iniziale annuncio di Stallman per
l’avvio di GNU, andava diventando sempre più
competitivo. Per tenersi stretti i propri clienti, le aziende
stavano chiudendo l’accesso al codice sorgente, tendenza a
cui era dovuto il rapido incremento di richieste per il software
del progetto GNU. I maghi di Unix che un tempo consideravano
Stallman un eccentrico un po’ turbolento, iniziarono a
considerarlo una Cassandra del software.
“La gente non se ne rende conto fino a quando non viene
coinvolta direttamente, ma è davvero frustrante lavorare per
due anni su un programma solo per poi vederselo soffiar via sotto
il naso”, così Chassell sintetizza le sensazioni e i
commenti contenuti nelle lettere ricevute in quegli anni dalla
FSF. “Dopo che ti accade un paio di volte, cominci a dirti,
‘Un momento, così non funziona.’”
Per Chassell la decisione di entrare a far parte della Free
Software Foundation si basava su analoghe esperienze personali.
Prima di lavorare alla LMI, stava scrivendo un libro introduttivo
su Unix per la Cadmus, Inc., azienda di software situata nei
pressi di Cambridge. Quando questa chiuse bottega, portò con
sé i diritti dell’opera, e il tentativo dello stesso
Chassell di riacquistarli non andò in porto.
“A quanto mi risulta, il libro è tuttora in qualche
cassetto ad ammuffire, inutilizzabile e non copiabile,
semplicemente fuori dal giro”, aggiunge. “Era una
buona opera introduttiva, se posso dirlo. Basterebbero forse tre
o quattro mesi per trasformarlo oggi in un’ottima guida
all’odierno GNU/Linux. A parte quanto posso ricordare
personalmente, l’intera esperienza è andata
perduta.”
Costretto a vedere il proprio lavoro impantanarsi mentre il
temporaneo datore di lavoro rischiava di finire in bancarotta,
Chassell afferma di aver provato qualcosa di analogo alla rabbia
che spinse Stallman a due passi da un attacco apoplettico.
“Per me la questione centrale stava nella certezza che se
vuoi vivere in maniera decente non puoi trovarti davanti a delle
porte chiuse”, sostiene Chassell. “L’idea
stessa di avere la libertà di poter risolvere qualcosa, di
modificarla, di qualunque faccenda si tratti, è veramente
importante. Ti fa pensare con felicità che, dopo aver
vissuto così per un po’ di tempo, ciò che hai
fatto acquista davvero validità. Perché altrimenti ti
viene semplicemente portato via e buttato o abbandonato, oppure
quantomeno non hai più alcun rapporto la tua opera. È
come perdere un pezzo della propria esistenza.”