Il Maui High Performance Computing Center delle Hawaii si
trova all’interno di un edificio a un piano situato nelle
polverose colline rosse appena sopra la città di Kihei.
Circondato da panorami milionari e dal Silversword Golf Course
che vale milioni di dollari, il centro è un posto da sogno
per ogni ricercatore. Completamente diverso dai contorni sterili,
squadrati di Tech Square o anche dagli agglomerati che ospitano i
laboratori di ricerca e che si estendono disordinatamente, come
Argonne, Illinois, e Los Alamos, New Mexico, il centro sembra
quel tipo di posto dove i ricercatori trascorrono più tempo
stesi al sole che a seguire i progetti del post-dottorato.
Un’ipotesi vera soltanto in parte. Nonostante essi
tendano ad approfittare delle opportunità ricreative in
loco, al contempo prendono seriamente il proprio lavoro. Secondo
Top500.org, sito web che segue lo sviluppo dei supercomputer
più potenti del mondo, l’IBM SP Power3 ospitato nel
Computing Center è in grado di eseguire 837 miliardi di
operazioni al secondo, affermandosi come uno dei 25 computer
più potenti attivi sul pianeta. In comproprietà tra la
University of Hawaii e la U.S. Air Force, la macchina divide i
propri cicli operativi tra i compiti relativi alla logistica
militare e le indagini fisiche sulle alte temperature.
In poche parole, l’High Performance Computing Center di
Maui è un luogo unico, un posto dove l’intelligente
cultura della scienza e dell’ingegneria si mescola
pacificamente con l’atteggiamento rilassato delle isole
hawaiiane. Come sintetizza felicemente uno slogan apparso nel
2000 sul sito web del laboratorio locale:
“L’informatica in paradiso”.
Non è esattamente il luogo in cui ci si aspetterebbe di
incontrare Richard Stallman, il quale di fronte allo stupendo
panorama del vicino Maui Channel, dalla finestra di un ufficio
dell’edificio, borbotta con fare critico: “Troppo
sole”. Comunque sia, nei panni dell’emissario di un
altro paradiso informatico, Stallman è venuto a portare il
proprio messaggio, anche se ciò comporta l’esposizione
della sua carnagione pallida da hacker ai pericoli del sole
tropicale.
La sala della conferenza è già metà piena
quando arrivo per seguire il suo intervento. Il rapporto tra
uomini e donne è leggermente migliore dell’evento di
New York, ma neppure troppo: 85% contro 15%. Quasi metà dei
presenti indossa pantaloni color kaki e magliette da golf
griffate. L’altra metà sembra seguire l’usanza
locale: le magliette a fiori così diffuse in questa parte
del mondo e i volti abbronzati color ocra. Un pubblico multiforme
accomunato comunque dai vari gadget elettronici: telefoni
cellulari Nokia, Palm Pilot, portatili Sony VAIO.
Inutile aggiungere come Stallman sembri del tutto fuori luogo,
in piedi in fondo alla sala con indosso una maglietta blu, dei
pantaloni larghi marroni e calzini bianchi. Le luci al neon della
sala ne evidenziano il colore poco salutare della pelle assetata
di sole. Barba e capelli sono abbastanza lunghi da far apparire
gocce di sudore perfino sul più fresco dei colli hawaiiani.
Gli manca solo un tatuaggio sulla fronte con una parola tipo
“continentale”, e Stallman potrebbe essere scambiato
per un marziano.
Mentre Stallman gironzola intorno, alcune persone in platea
con la maglietta del Maui FreeBSD Users Group (MFUG) sono
indaffarate a sistemare le apparecchiature audio e video.
FreeBSD, un software libero frutto della Berkeley Software
Distribution, la venerabile versione accademica di Unix
sviluppata negli anni ’70, tecnicamente si pone come rivale
del sistema operativo GNU/Linux. Eppure nel mondo degli hacker
gli interventi di Stallman vengono documentati con un fervore
analogo a quello riservato ai Grateful Dead e alla leggendaria
truppa di archivisti amatoriali. Stavolta spetta agli aderenti
del Maui FreeBSD Users Group assicurarsi che i colleghi di
Amburgo, Mombai e Novosibirsk non perdano le ultime perle di
saggezza elargite da RMS.
L’analogia con i Grateful Dead è assolutamente
pertinente. Nel descrivere le opportunità commerciali
inerenti al modello del software libero, non di rado Stallman si
è riferito a quell’esempio. Rifiutando di limitare le
registrazioni amatoriali dei concerti dal vivo, i Grateful Dead
sono diventati molto più di un gruppo rock. Sono divenuti il
centro di una comunità tribale dedicata alla loro musica.
Con il passare del tempo tale comunità ha assunto
proporzioni talmente ampie, confermando al contempo la propria
devozione, che il gruppo ha rinunciato ai contratti con le case
discografiche per affidarsi unicamente alle entrate dei concerti
e dei tour dal vivo. Nel 1994, ultimo anno delle apparizioni sul
palco, i Grateful Dead avevano incassato 52 milioni di dollari
soltanto con i biglietti venduti ai concerti.[78]
Pur essendo ben poche le aziende di software capaci di imitare
simili successi, l’aspetto tribale della comunità del
software libero rappresenta un motivo per cui nella seconda
metà degli anni ’90 molta gente ha iniziato a
considerare positiva l’idea di pubblicare i codici
sorgenti. Nella speranza di attivare una propria schiera di
fedeli appassionati, società come IBM, Sun Microsystems e
Hewlett-Packard sembrano aver adottato la lettera, se non
esattamente lo spirito, del messaggio di Stallman. Nel definire
la GPL come la “Magna Carta” dell’industria
tecnologica, il giornalista specializzato di ZDNet, Evan
Leibovitch, considera la crescente affezione per tutto ciò
che è targato GNU qualcosa di più di una semplice
tendenza. “Si tratta di un mutamento sociale che consente
agli utenti di riprendere in mano il controllo sul proprio
futuro”, scrive Leibovitch. “Come la Magna Carta
riconosceva i diritti dei cittadini britannici, così la GPL
sostiene i diritti e le libertà dei consumatori
nell’interesse degli stessi utenti del
software.”[79]
L’aspetto tribale della comunità del software
libero consente inoltre di spiegare perché mai una
quarantina di programmatori, che altrimenti se ne starebbero a
lavorare su progetti di fisica oppure a navigare sul web per
sapere quando arriverà il vento buono per il surf, si
trovino invece pigiati in una sala-conferenze ad ascoltare
Stallman.
Contrariamente a quanto accaduto a New York, stavolta non
c’è nessuno a presentarlo e neppure lui si presenta.
Non appena il gruppo del FreeBSD ha finito di approntare le
apparecchiature, Stallman si limita a farsi avanti e inizia a
parlare, con la voce che copre ogni altro brusio in sala.
“Quando si affronta la questione delle regole
concernenti l’utilizzo del software, per lo più sono
le stesse aziende a occuparsene, e quindi vedono la cosa dal
punto di vista della propria utilità”, così
Stallman apre l’intervento. “Questa la domanda che
sembrano porsi: quali norme possiamo imporre agli altri in modo
che debbano pagarci un sacco di soldi? Negli anni ’70 ho
avuto la buona sorte di far parte di una comunità di
programmatori fondata sulla condivisone del software. E grazie a
ciò mi è sempre piaciuto considerare la medesima
questione da un punto di vista diverso, chiedendomi: quali sono
le regole necessarie per rendere la società più giusta
e positiva per quanti ne fanno parte? E quindi sono arrivato a
conclusioni del tutto opposte.”
Ancora una volta Stallman propone rapidamente la parabola
della stampante laser Xerox, concedendosi un attimo di pausa
prima di ripetere il gesto drammatico di puntare il dito contro
qualcuno del pubblico. Passa poi a dedicare un minuto o due alla
spiegazione del nome GNU/Linux.
“Qualcuno potrebbe dire, ‘Perché mai
affaticarsi tanto per guadagnare consensi per questo sistema? In
fondo l’importante è che si sia raggiunto lo scopo
prefissato, non tanto chi ne abbia il merito.’ Be’,
se questo fosse vero si tratterebbe di un saggio consiglio. In
realtà, il progetto non riguarda la realizzazione di un
sistema operativo, quanto piuttosto la diffusione dell’idea
stessa di libertà per gli utenti informatici. E per
riuscirci dobbiamo permettere qualsiasi utilizzo del computer in
piena libertà.”[80]
E aggiunge: “C’è ancora molto lavoro da
fare”.
Per qualcuno tra il pubblico si tratta di materiale datato,
per altri suona un po’ arcano. Quando una persona del
contingente in maglietta da golf sembra appisolarsi, Stallman si
ferma e chiede al vicino di svegliarlo.
“Una volta qualcuno ha trovato la mia voce così
suadente che mi ha chiesto se per caso non fossi un
guaritore”, dice Stallman, suscitando le risate del
pubblico. “Temo che questo significhi che posso aiutarvi a
sprofondare gentilmente in un rilassante pisolino. E forse
qualcuno ne ha davvero bisogno. E quindi non solleverò
obiezioni. Se qualcuno vuole dormire, non faccia
complimenti.”
Il discorso si chiude con una breve analisi dei brevetti sul
software, questione che suscita sempre maggiore preoccupazione
sia nella comunità del software libero sia in ambito
industriale. Come nel caso di Napster, tali brevetti riflettono
l’ambigua situazione di dover applicare leggi e concetti
del mondo fisico all’universo incorporeo delle tecnologie
dell’informazione. La differenza tra la tutela di un
programma sotto copyright e quella di uno coperto da brevetto
è sottile ma significativa. Nel primo caso, chi ha creato il
software può vietare la duplicazione del codice ma non
quella dell’idea o della funzionalità cui si riferisce
quel codice. In altri termini, se uno sviluppatore sceglie di non
usare un programma tutelato dai termini imposti dall’autore
originale, gli resta comunque la libertà di operare il
cosiddetto “reverse-engineering” -- ovvero,
riprodurne le funzionalità scrivendo nuovamente il codice
partendo da zero. Si tratta di una duplicazione delle idee assai
comune nell’industria del software commerciale, dove spesso
le aziende isolano i gruppi a cui affidano tali operazioni, per
evitare l’accusa di spionaggio aziendale o possibili scambi
tra gli sviluppatori. Nel gergo dell’odierno sviluppo
informatico, ci si riferisce a questa tecnica col termine di
ingegneria in “locali senza polvere.”
I brevetti sul software operano in maniera diversa. Secondo
l’omonimo ufficio statunitense, aziende e individui possono
brevettare ogni nuovo algoritmo purché lo sottopongano a una
revisione pubblica. In teoria, ciò consente al possessore di
quel brevetto di trattare la diffusione dell’invenzione con
un monopolio limitato a 20 anni dalla data di presentazione della
richiesta. In pratica, tale diffusione riveste un valore minimo,
poiché spesso l’operatività del programma si
spiega da sé. Contrariamente al copyright, un brevetto offre
a chi lo detiene la possibilità di impedire lo sviluppo
indipendente di un programma dotato di funzionalità
identiche o analoghe.
Nell’industria del software, dove 20 anni posso arrivare
a coprire l’intero arco di vita di un mercato, i brevetti
assumono connotati strategici. Laddove aziende quali la Microsoft
e la Apple una volta si facevano guerra sul copyright e
sull’aspetto tipico di varie tecnologie, le società
odierne su Internet ricorrono ai brevetti, poiché sono uno
strumento atto a bloccare applicazioni individuali e modelli
commerciali, come rivela il noto caso di Amazon.com, che nel 2000
tentò di brevettare il procedimento per effettuare acquisti
rapidi online denominato “one-click”. Ma per la
maggior parte delle società i brevetti sul software sono
divenuti uno strumento difensivo, dove gli scambi di licenze
servono a pareggiare la quantità di brevetti posseduti da
una corporation contro quelli di un’altra. Tuttavia in
alcuni importanti casi riguardanti la crittografia e gli
algoritmi per immagini grafiche, alcuni produttori di software
sono riusciti a bloccare determinate tecnologie concorrenti.
Per Stallman, la questione dei brevetti sul software serve a
mettere in evidenza la necessità di un’eterna
vigilanza da parte degli hacker. Sottolinea inoltre
l’importanza di insistere sui benefici politici dei
programmi di software libero rispetto ai vantaggi competitivi.
Riferendosi alla capacità dei brevetti di creare zone
protette all’interno del mercato, Stallman ritiene che la
competizione nelle prestazioni e nei prezzi, due aree in cui i
sistemi operativi di software libero quali GNU/Linux e FreeBSD
già vantano un discreto vantaggio sulle controparti
proprietarie, sia un problema di importanza secondaria rispetto
alle questioni più ampie concernenti la libertà degli
sviluppatori e degli utenti.
“Non ci manca certo il talento necessario a produrre
software migliore”, sostiene Stallman. “Ma non
abbiamo il diritto di intervenire. Qualcuno ci ha vietato di
offrire servizi al pubblico. E allora, che cosa succede quando
gli utenti s’imbattono in vuoti di questo tipo nel software
libero? Se sono stati convinti dal movimento open source che
queste libertà sono positive poiché danno come
risultato un software più potente e affidabile,
probabilmente diranno, ‘Non avete mantenuto la promessa.
Questo programma non è affatto più potente, gli manca
una certa funzione. Mi avete mentito’. Se invece concordano
con il movimento del software libero sul fatto che la
libertà è importante per se stessa, allora diranno,
‘Come si permette questa gente di impedirmi di usufruire di
questa funzione, e con essa della libertà?’. Grazie a
questo tipo di risposta forse riusciremo a sopravvivere alle
bordate che ci attendono non appena esploderà la questione
dei brevetti.”
Questi commenti hanno effetti piuttosto articolati. Quando si
parla di brevetti la maggior parte degli esponenti open source si
mostra altrettanto, se non più decisa di Stallman. Eppure la
logica sottostante la sua tesi -- l’accento che i
sostenitori dell’open source pongono sui vantaggi
utilitaristici del software libero rispetto a quelli politici --
rimane immune da contestazioni. Piuttosto che sottolineare la
rilevanza politica di tali programmi, gli esponenti open source
hanno scelto di evidenziare l’integrità ingegneristica
del modello di sviluppo messo a punto dagli hacker. Citando la
forza delle revisioni collaborative, la tesi dell’open
source sostiene che programmi come GNU/Linux oppure FreeBSD siano
costruiti e verificati in maniera più accurata e di
conseguenza risultino più affidabili per l’utente
medio.
Ciò non implica la mancanza di valenze politiche per il
termine “open source”, il quale mira sostanzialmente
a due obiettivi. Primo, elimina la confusione associata alla
parola “free”, che in inglese ha il doppio
significato di “libero” e “gratuito”,
tant’è vero che molti imprenditori tendono a
interpretarla nel senso di “costo zero”. Secondo,
consente alle aziende di prendere in esame il fenomeno del
software libero in un contesto tecnologico anziché etico.
Eric Raymond, co-fondatore della Open Source Initiative e uno dei
primi hacker ad abbracciare quel termine, riassume efficacemente
la frustrazione di dover seguire Stallman sul terreno politico in
un saggio del 1999 intitolato “Shut Up and Show Them the
Code” (Smetti di parlare e fagli vedere il codice):
La retorica di RMS è molto seducente per gente come noi.
Noi hacker ci riteniamo pensatori e idealisti sempre aperti al
richiamo dei “principi”, della
“libertà”, dei “diritti”. Anche
quando ci troviamo in disaccordo sui bit di qualche suo
programma, siamo convinti che lo stile retorico di RMS debba
funzionare comunque; rimaniamo sconcertati e increduli quando
questo non si verifica con il 95% di quanti non sono
“wired” come noi.[81]
Questo 95%, scrive Raymond, comprende la vasta maggioranza dei
manager, degli investitori, degli utenti non-hacker cui spettano,
non foss’altro per il peso dei numeri, le decisioni
sull’andamento generale del mercato commerciale. Se non si
trova il modo di convicerli, insiste Raymond, i programmatori
sono condannati a perseguire la propria ideologia ai margini
della società:
Quando RMS insiste sul fatto che dovremmo parlare dei
“diritti degli utenti”, provoca un invito
pericolosamente attraente a ripetere i fallimenti del passato.
Dobbiamo respingerlo -- non perché siano sbagliati i
principi di base, ma perché quel tipo di linguaggio,
applicato al software, semplicemente non riesce a convincere
nessun altro tranne noi. Finisce anzi col confondere e allontana
molta gente che non appartiene alla nostra cultura.[82]
Ascoltando Stallman in persona enunciare il proprio credo
politico, sembra difficile notare qualcosa di poco chiaro o di
fastidioso. Il suo aspetto può apparire poco attraente, ma
il messaggio è del tutto logico. Quando una persona tra il
pubblico chiede se, nel rifiutare il software proprietario,
coloro che propongono il software libero finiscano per perdere la
capacità di stare al passo con i più recenti sviluppi
tecnologici, Stallman replica in modo coerente alle proprie
opinioni. “Credo che la libertà sia più
importante del puro avanzamento tecnico”, dice.
“Sceglierei sempre un programma libero meno aggiornato
piuttosto che uno non-libero più recente, perché non
voglio rinunciare alla libertà personale. La mia regola
è, se non posso condividerlo con gli altri, allora non lo
prendo.”
Simili risposte, tuttavia, non fanno altro che rinforzare la
natura quasi religiosa di quel messaggio. Come un ebreo con i
cibi kosher o un mormone che rifiuta di bere alcolici, Stallman
dipinge la propria decisione di usare il software libero in luogo
di quello proprietario con i colori della tradizione e del credo
personale. Come si usa fra gli evangelisti del software, Stallman
evita però di forzare i presenti ad accettare le sue
opinioni a ogni costo. In ogni caso, è raro il caso in cui,
dopo averlo ascoltato, qualcuno se ne vada senza sapere quale sia
la vera strada che conduce alla legittimità del
software.
Per meglio enfatizzare il messaggio, Stallman inframmezza il
discorso con un rituale insolito. A un certo punto tira fuori, da
una busta di plastica, una tunica scura e la indossa. Da
un’altra busta prende il disco rigido di un computer,
giallo e riflettente, e se lo mette in testa. Dal pubblico
iniziano a levarsi le prima risate.
“Io sono Sant’Ignucius della Chiesa
dell’Emacs”, recita alzando la mano destra come a
dispensare la benedizione. “Sono qui a benedire i vostri
computer, figli miei.”
Dopo pochi secondi le risate si trasformano in uno scrosciante
applauso. E mentre il pubblico continua ad applaudire, il disco
rigido sulla testa assorbe i riflessi della luce sovrastante,
creando il preciso effetto di un’aureola. In attimo eccolo
trasformarsi da strano personaggio a icona religiosa russa.
“All’inizio l’Emacs non era altro che un
elaboratore testi”, così Stallman sintetizza
l’evoluzione del programma. “Alla fine divenne un
modello di vita per molti e una religione per alcuni. Una
religione che definiamo la Chiesa dell’Emacs.”
La sceneggiata rappresenta uno spensierato momento di
autoironia, un’umoristica stoccata di rimando alle molte
persone che considerano l’ascetismo del software propugnato
da Stallman null’altro che un camuffamento del suo
fanatismo religioso. Ma è anche un modo per mostrarsi senza
difese, apertamente. È come se, con addosso quel
travestimento di tunica e aureola, abbia finalmente deciso di
concedere qualche libertà ai presenti, proponendo loro:
“Potete ridere di me quanto volete. So bene di essere un
tipo strano”.
Parlando in seguito del personaggio di Sant’Ignucius,
Stallman spiega di averlo ideato nel 1996, parecchio tempo dopo
la creazione dell’Emacs ma sicuramente prima
dell’apparizione del termine “open source” e
della susseguente lotta per la leadership nella comunità
hacker. Al contempo, sottolinea, voleva trovare un modo per
“prendersi in giro”, così da ricordare al
pubblico che, per quanto testardo, non era poi quel fanatico
dipinto da qualcuno. Fu soltanto dopo, aggiunge Stallman, che gli
altri si appropriarono di quell’alter ego per danneggiare
la sua reputazione personale di ideologo del software, come
testimonia un’intervista di Eric Raymond apparsa nel 1999
sul sito web linux.com:
Quando sostengo che RMS calibri con molta attenzione le
proprie azioni, non intendo disprezzarlo né accusarlo di
poca sincerità. Voglio dire che, al pari di ogni efficace
comunicatore, possiede un buon guizzo teatrale. Talvolta ne
è consapevole -- l’avete visto nei panni di
Sant’Ignucius, benedire il software con un disco in testa?
Ma per lo più è qualcosa di inconsapevole; ha imparato
a stimolare una certa irritazione che funziona, che tiene
inchiodata l’attenzione della gente senza (generalmente)
confonderla troppo.[83]
Stallman rifiuta l’analisi di Raymond. “È
soltanto il mio modo di prendermi in giro”, risponde.
“Il fatto che altri lo giudichino in maniera diversa è
solo un riflesso delle loro posizioni, non delle mie.”
Ciò detto, Stallman non nega di sentirsi un attore
mancato. “Scherzi?”, fa a un certo punto. “Amo
trovarmi al centro dell’attenzione.” Per dare una
spinta a questo processo, mi rivela che una volta si era iscritto
a un’associazione la cui attività puntava a esaltare
la capacità di parlare in pubblico, pratica che raccomanda
caldamente a chiunque. Possiede un senso della propria presenza
sul palco che farebbe invidia a molti attori teatrali e rimanda
ai varietà vaudevilliani del passato. Qualche giorno dopo il
discorso al Maui High Performance Computing Center, gli rammento
il suo intervento al LinuxWorld 1999 per chiedergli se non sia
per caso affetto dal complesso di Groucho Marx -- ovvero, il
rifiuto di appartenere a qualsiasi gruppo che lo vorrebbe invece
tra i propri aderenti. La replica di Stallman è immediata:
“No, ma ammiro parecchio Groucho Marx e sicuramente alcune
sue uscite mi hanno influenzato parecchio. Ma ho trovato fonte
d’ispirazione anche in Harpo Marx”.
L’influenza di Groucho Marx appare evidente nella sua
costante ricerca della battuta giusta. E comunque, battute e
giochi di parole sono un tratto comune agli hacker. Ma forse
l’aspetto di Stallman più vicino a Groucho sta nel
modo impassibile con cui lancia le sue frecciatine. In genere
queste arrivano così furtive e improvvise -- senza neppure
un’alzata di sopracciglia o l’accenno di un sorriso
-- che viene da chiedersi se non sia Stallman a prendersi gioco
del pubblico anziché viceversa.
Le risate suscitate dalla parodia di Sant’Ignucius al
Maui High Performance Computer Center fanno svanire simili
preoccupazioni. Pur senza imporsi come prim’attore,
Stallman possiede sicuramente le doti per tenere felicemente
testa agli ingegneri assiepati in quella sala. “Per
diventare santi della Chiesa dell’Emacs non occorre
coltivare il celibato, ma bisogna condurre un’esistenza
basata sulla purezza morale”, spiega ai presenti.
“Dovete esorcizzare il malefico sistema operativo
proprietario dai vostri computer per poi installarne uno
completamente libero. E su quello dovrete poi far girare soltanto
software libero. Se sarete in grado di aderire a questi precetti,
allora anche voi diventerete santi della Chiesa dell’Emacs,
e potrete perfino guadagnarvi un’aureola.”
La scena di Sant’Ignucius si chiude con una rapida
battuta per addetti ai lavori. Su gran parte dei sistemi Unix e
annesse diramazioni, il maggior rivale dell’Emacs è
vi, un elaboratore di
testi sviluppato dall’ex-studente alla University of
Berkeley (California) e attuale responsabile della ricerca presso
la Sun Microsystems, Bill Joy. Prima di togliersi
l’“aureola”, Stallman scherza sul programma
rivale. “Talvolta qualcuno mi chiede se nella Chiesa
dell’Emacs non sia considerato peccato ricorrere al vi”, dice. “Usarne
una versione libera non è peccato, ma è una penitenza.
Happy hacking a tutti.”
Dopo una breve sessione dedicata a domande e risposte, parte
del pubblico gli si stringe intorno. Qualcuno gli chiede un
autografo. “Firmo su questo foglio”, dice allungando
a una donna la stampa della GNU General Public License, “ma
soltanto se mi prometti di usare sempre il termine GNU/Linux
invece di Linux e chiedi ai tuoi amici di fare
altrettanto.”
Il commento non fa altro che confermare un’osservazione
del tutto personale. Al contrario di altre figure teatrali e
politiche, Stallman non riesce mai a “spegnersi”. A
parte il personaggio di Sant’Ignucius, le posizioni
filosofiche estrinsecate sul palco rimangono tali e quali anche
dietro le quinte. Più tardi quella stessa sera, durante una
chiacchierata a cena, un programmatore manifesta il suo
apprezzamento per i programmi “open source”; Stallman
alza subito il tono pur tra un boccone e l’altro:
“Vuoi dire software libero, è questa la definizione
giusta”.
Tornando per un attimo alla parte della conferenza riservata
alle domande conclusive, Stallman ammette talvolta di giocare a
fare il pedagogo. “Alcuni dicono, ‘Invitiamo prima la
gente nella comunità, e poi insegneremo loro che cosa
significa libertà’. Potrebbe anche essere una
strategia ragionevole, ma poi succede che quasi tutti ci diamo un
gran daffare a invitare gli altri, e alla fine quasi nessuno dice
nulla sulla libertà.”
Il risultato, aggiunge Stallman, fa pensare a una città
del terzo mondo. La gente vi si ammassa nella speranza di far
soldi o quantomeno di partecipare a una cultura ricca e vibrante,
tuttavia chi detiene veramente il potere impiega nuovi
stratagemmi -- ad esempio, i brevetti sul software -- per tenere
lontane le masse. “Arrivano a milioni e finiscono per
insediarsi in quartieri-ghetto, ma nessuno s’impegna per il
passo successivo: farli uscire da quei ghetti. Se ritenete che
parlare del software libero sia una buona strategia, allora
prodighiamoci per la fase successiva. Parecchie persone lavorano
per arrivare sul primo scalino, ne servono assai di più per
raggiungere il secondo.”
Ciò significa avere ben chiaro che è la
libertà, e non l’accettazione, a costituire le
fondamenta del movimento del software libero. Quanti sperano di
riformare dall’interno l’industria del software
proprietario si prendono in giro da soli. “È rischioso
cercare il cambiamento dall’interno”, sostiene
Stallman. “A meno che non si agisca al livello di un
Gorbaciov, finiranno per neutralizzarci.”
Molte le mani alzate in platea. Stallman indica una persona
tra quelle con la maglietta da golf. “Senza brevetti, come
credi si possa limitare lo spionaggio commerciale?”
“Credo proprio che le due questioni non abbiano nulla in
comune”, ribatte Stallman.
“Mi riferisco alla possibilità che qualcuno decida
di rubare il software di un’altra azienda.”
Stallman si contorce come se fosse stato colpito da un spray
velenoso. “Un momento. Rubare? Mi dispiace, ma
c’è tanto pregiudizio in quest’affermazione che
non posso far altro che respingerla. Le aziende che sviluppano
software non-libero e cose simili detengono
un’enormità di segreti commerciali, si tratta di uno
scenario che difficilmente potrà cambiare. In passato --
diciamo anche negli anni ‘80 -- la maggior parte dei
programmatori non sapeva neanche dell’esistenza dei
brevetti e non vi prestava alcuna attenzione. Succedeva che la
gente faceva girare delle idee interessanti e, se non faceva
parte del movimento del software libero, ne teneva segreti i
dettagli. Adesso invece pongono sotto brevetto quelle stesse
idee, e continuano a tenerne segreti i dettagli. Insomma, dalla
tua descrizione non direi che i brevetti possano cambiare la
situazione in un modo o nell’altro.”
“Ma se ciò non ha conseguenze sulla pubblica
circolazione delle idee...”, s’inserisce un altro, la
voce tremula non appena inizia a parlare.
“Invece lo ha”, replica Stallman. “È
tale circolazione a informarci del fatto che quell’idea
rimane intoccabile per il resto della comunità per 20 anni.
E che cosa c’è di buono in questo? E poi il linguaggio
dei brevetti è così difficile da interpretare, allo
scopo sia di offuscare la portata dell’idea stessa sia di
renderla più ampia possibile, che è praticamente
inutile studiare le informazioni pubblicate per cercare di
imparare qualcosa. L’unico motivo per dare
un’occhiata ai brevetti è per aggiornarsi su quel che
non si può fare.”
Il pubblico rimane in silenzio. L’intervento, iniziato
alle 3:15 del pomeriggio, si avvicina al fischio di chiusura
previsto per le cinque, e gran parte dei presenti si muove sulla
sedia già pregustando il week-end alle porte. Cosciente
della stanchezza in sala, Stallman dà un’occhiata
intorno e rapidamente chiude l’incontro. “Direi
allora che siamo arrivati alla fine”, conclude, e aggiunge
come un battitore d’aste “aggiudicato” per
prevenire le domande dell’ultimo istante. Visto che nessuno
alza più la mano, Stallman saluta con la tradizionale
battuta finale: “Happy hacking”.