Una breve discesa nell’inferno hacker
Richard Stallman guarda fisso davanti a sé alla guida di
una macchina a noleggio, aspettando che il semaforo diventi
verde, mentre ci troviamo nel centro di Kihei.
Siamo diretti alla vicina cittadina di Pa’ia, dove ci
incontreremo fra circa un’ora con un gruppo di
programmatori e relative consorti per andare a cena tutti
insieme.
Sono trascorse ormai due ore dal discorso di Stallman al Maui
High Performance Center, e Kihei, luogo apparentemente così
invitante prima dell’evento, ora sembra profondamente
ostile. Come molte città costruite sulla spiaggia, Kihei non
è altro che una sfilza unidimensionale di agglomerati
suburbani. Guidando sull’arteria principale, affiancata da
un’interminabile sequenza di chioschi dove si vendono
panini, agenzie immobiliari e negozi di bikini, è difficile
non sentirsi come un boccone, protetto da un abitacolo di
metallo, che percorre l’apparato digerente di un gigantesco
verme solitario. Una sensazione esacerbata dalla mancanza di
strade laterali. Si può soltanto andare dritti, e così
il traffico si muove a piccoli sbalzi. 500 metri più avanti
il semaforo diventa verde. Quando riusciamo a muoverci è
tornato nuovamente giallo.
Per Stallman, da sempre residente sulla costa orientale degli
Stati Uniti, la prospettiva di dover trascorrere la parte
migliore di un assolato pomeriggio hawaiiano intrappolato in un
traffico da lumaca, è sufficiente a provocare un attacco
apoplettico. Ancor peggio, sapendo che sarebbe bastato girare a
destra all’incrocio giusto, quattrocento metri prima, per
evitare questa situazione. Purtroppo siamo alla mercé
dell’autista davanti a noi, un programmatore locale che
conosce la strada e che ha deciso di farci passare per
l’itinerario panoramico di Pa’ia invece di imboccare
la parallela Pilani Highway.
“È spaventoso”, si scalda Stallman, al colmo
della frustrazione. “Perché mai non abbiamo preso
l’altra strada?”
Ecco diventare di nuovo verde il semaforo qualche centinaio di
metri più avanti. E ancora un volta riusciamo ad avanzare
appena di qualche macchina. La situazione si protrae per altri
dieci minuti, fino a quando raggiungiamo finalmente
l’incrocio che promette accesso all’adiacente
autostrada.
La macchina davanti decide di ignorarlo e procede diritta.
“Ma perché non gira?” mugugna Stallman,
alzando le braccia al cielo in segno di frustrazione.
“È incredibile!”
Decido anch’io di ignorare la situazione. Mi pare
già altrettanto incredibile il fatto di trovarmi a Maui, in
un’autovettura guidata da Stallman. Fino a due ore prima
non sapevo neppure che sapesse guidare. Adesso, ascoltando un
pezzo di musica folk, con le note basse di un violoncello emesse
dallo stereo della macchina e osservando il tramonto alla nostra
sinistra, faccio del mio meglio per sprofondare nel sedile.
Quando finalmente si presenta un’altra opportunità
per girare, Stallman mette la freccia a destra tentando di
attirare l’attenzione della macchina davanti. Niente da
fare. Ancora una volta superiamo lentamente l’incrocio, per
poi bloccarci a quattrocento metri buoni dal semaforo successivo.
A questo punto Stallman diventa livido di rabbia.
“Sembra che abbia deliberatamente deciso di
ignorarci”, sbotta, gesticolando furiosamente come
l’addetto all’atterraggio di un aereo, nel vano
tentativo di richiamare l’attenzione della nostra guida. La
quale non si scompone minimamente, e per i cinque minuti
successivi tutto quello che riusciamo a vedere è una piccola
porzione del suo volto nello specchietto retrovisore.
Guardo fuori dal finestrino di Stallman. Le vicine isole
Kahoolawe e Lanai fanno da cornice ideale per il calar del sole.
Una vista mozzafiato, di quelle che consentono ai locali di
sopportare meglio momenti simili, credo. Tento di spostare verso
quel panorama l’attenzione di Stallman, ma non mi dà
retta, ossessionato com’è dalla disattenzione
dell’autista davanti.
Quando questo supera l’ennesimo semaforo verde,
disinteressandosi del cartello “Pilani Highway” sulla
destra, mi trovo a digrignare i denti. Mi viene in mente un
avvertimento che mi aveva dato tempo addietro Keith Bostic,
programmatore del BSD. “Stallman non può sopportare le
stupidate. Se una persona fa o dice qualcosa di stupido, non ci
pensa due volte a guardarla dritto negli occhi e dichiarare,
‘È una cretinata’.”
Osservando l’ignaro autista che ci precede, mi rendo
come sia proprio quella stupidità, non tanto la circostanza
poco simpatica, a far dannare in quel momento Stallman.
“Sembra che abbia scelto la strada senza assolutamente
pensare al modo più efficiente per arrivare a
destinazione”, insiste Stallman.
La parola “efficiente” rimane nell’aria come
un cattivo odore. Sono poche le cose che irritano la mente hacker
più dell’inefficienza. Fu l’inefficienza di
dover andare a verificare di persona due o tre volte al giorno la
stampante laser della Xerox che spinse Stallman a occuparsi una
prima volta del suo codice. Fu l’inefficienza di dover
riscrivere programmi contrabbandati dai rivenditori di software
commerciale che lo convinsero a opporsi alla Symbolics e a
lanciare il progetto GNU. Se l’inferno sono gli altri, come
opinò una volta Jean Paul Sartre, l’inferno hacker sta
nella duplicazione degli stupidi errori altrui, e non è
esagerato affermare che l’intera esistenza di Stallman
è stata un tentativo di salvare l’umanità da
simili abissi infuocati.
La metafora dell’inferno appare ancora più
appropriata mentre attraversiamo lentamente la scena locale. Con
quella moltitudine di negozi, parcheggi e semafori non
coordinati, più che a una città Kihei assomiglia a un
enorme software mal progettato. Invece di dirigere il traffico e
distribuire il flusso di veicoli lungo strade laterali e
tangenziali, i pianificatori cittadini hanno deciso di far
transitare tutti i veicoli lungo un’unica arteria
principale. Dal punto di vista dell’hacker, starsene seduti
in macchina in mezzo a quella gran confusione è come
ascoltare un CD a tutto volume che riproduca lo stridio delle
unghie su una lavagna.
“Sono i sistemi imperfetti a far infuriare gli
hacker”, osserva Steven Levy, un’ulteriore
affermazione a cui avrei dovuto prestare orecchio prima di salire
in macchina con Stallman. “È questa una delle ragioni
per cui in genere gli hacker detestano guidare --
quell’insieme mal programmato di semafori rossi e di
assurdi sensi unici provoca ritardi così dannatamente
inutili da suscitare l’impulso di riorganizzare la
segnaletica, aprire le scatole di controllo dei semafori...
ridisegnare l’intero sistema.”[125]
Ancor più frustrante appare tuttavia
l’atteggiamento incerto del nostro fidato accompagnatore.
Anziché tentare qualche rapida scorciatoia -- come avrebbe
istintivamente fatto un vero hacker -- l’autista che ci
precede ha invece deciso di rispettare le regole del gioco volute
da chi ha pianificato la città. Come Virgilio
nell’Inferno dantesco, la nostra guida è ben decisa a
offrirci una visita completa di questo inferno hacker, che lo
vogliamo o no.
Prima di poter riferire l’osservazione a Stallman, ecco
finalmente che la macchina davanti mette la freccia a destra. Le
spalle ingobbite di Stallman si rilassano un po’, e per un
attimo la tensione sparisce. Per tornare subito dopo, quando la
macchina rallenta. Ai lati della carreggiata compaiono dei
cartelli con la scritta “lavori in corso”, e anche se
la Pilani Highway si trova a poche centinaia di metri, la strada
a due corsie che ci separa dall’imbocco autostradale è
bloccata da un bulldozer a riposo e da due grandi cumuli di
terra.
Ci vuole qualche secondo prima che Stallman si renda conto di
quanto accade, mentre la nostra guida inizia a compiere una serie
di ardue manovre per fare la conversione a U. Quando anche
Stallman si accorge del bulldozer e subito dietro della
segnaletica che avvisa “Strada chiusa”, non riesce
più a trattenersi.
“Perché, perché, perché?” inizia a
lamentarsi gettando all’indietro la testa. “Avresti
dovuto saperlo che la strada era bloccata. Avresti dovuto sapere
che di qua non si passava. L’hai fatto apposta!”
L’autista davanti conclude la manovra e ci passa di
fianco, tornando indietro sulla strada principale, mentre scuote
la testa chiedendoci scusa con una scrollata di spalle. Assieme a
un sorriso appena abbozzato, il gesto rivela un po’ della
frustrazione tipica di chi vive sulla terraferma, mitigato
però dalla protettiva dose di fatalismo di chi è
abituato vivere su quell’isola. Passando vicino al
finestrino chiuso della nostra macchina a noleggio, lancia una
rapida battuta: “Siamo a Maui, che ci vuoi fare?”
A quel punto Stallman perde le staffe.
“Non c’è niente da ridere” urla,
sbuffando sul finestrino. “È solo colpa tua. Sarebbe
stato tutto molto più semplice se avessimo fatto a modo
mio.”
Stallman sottolinea le parole “a modo mio”
aggrappandosi al volante e chinandosi su di esso due volte.
Sembra un bambino che ha un attacco d’ira in macchina, come
sottolinea ulteriormente il tono della voce. A metà tra la
rabbia e l’angoscia, sembra sul punto di scoppiare in
lacrime.
Fortunatamente si trattiene. Come un acquazzone estivo,
l’attacco d’ira finisce rapidamente come era
iniziato. Dopo qualche altro sospiro, Stallman mette la
retromarcia e inizia la manovra di conversione. Non appena
riprendiamo la strada, il suo volto torna a farsi impassibile
come quando abbiamo lasciato l’albergo mezz’ora
prima.
In meno di cinque minuti raggiungiamo l’incrocio
successivo. Da qui imbocchiamo facilmente l’autostrada e in
pochi secondi viaggiamo verso Pa’ia a una velocità
ragionevole. Il sole che poco prima appariva giallo e brillante
sopra la spalla sinistra di Stallman ora brucia di un bel
rosso-arancione nello specchietto retrovisore, inondando del suo
colore le due file di alberi locali disposti lungo i lati
dell’autostrada.
Per i successivi venti minuti, oltre al mormorio del motore e
delle gomme sull’asfalto, in macchina si sente soltanto la
musica di un trio di violini e violoncelli che si cimenta nelle
dolenti melodie di un motivo folk dei Monti Appalachi.