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Codice Libero - Capitolo 12

   

Una breve discesa nell’inferno hacker

Richard Stallman guarda fisso davanti a sé alla guida di una macchina a noleggio, aspettando che il semaforo diventi verde, mentre ci troviamo nel centro di Kihei.

Siamo diretti alla vicina cittadina di Pa’ia, dove ci incontreremo fra circa un’ora con un gruppo di programmatori e relative consorti per andare a cena tutti insieme.

Sono trascorse ormai due ore dal discorso di Stallman al Maui High Performance Center, e Kihei, luogo apparentemente così invitante prima dell’evento, ora sembra profondamente ostile. Come molte città costruite sulla spiaggia, Kihei non è altro che una sfilza unidimensionale di agglomerati suburbani. Guidando sull’arteria principale, affiancata da un’interminabile sequenza di chioschi dove si vendono panini, agenzie immobiliari e negozi di bikini, è difficile non sentirsi come un boccone, protetto da un abitacolo di metallo, che percorre l’apparato digerente di un gigantesco verme solitario. Una sensazione esacerbata dalla mancanza di strade laterali. Si può soltanto andare dritti, e così il traffico si muove a piccoli sbalzi. 500 metri più avanti il semaforo diventa verde. Quando riusciamo a muoverci è tornato nuovamente giallo.

Per Stallman, da sempre residente sulla costa orientale degli Stati Uniti, la prospettiva di dover trascorrere la parte migliore di un assolato pomeriggio hawaiiano intrappolato in un traffico da lumaca, è sufficiente a provocare un attacco apoplettico. Ancor peggio, sapendo che sarebbe bastato girare a destra all’incrocio giusto, quattrocento metri prima, per evitare questa situazione. Purtroppo siamo alla mercé dell’autista davanti a noi, un programmatore locale che conosce la strada e che ha deciso di farci passare per l’itinerario panoramico di Pa’ia invece di imboccare la parallela Pilani Highway.

“È spaventoso”, si scalda Stallman, al colmo della frustrazione. “Perché mai non abbiamo preso l’altra strada?”

Ecco diventare di nuovo verde il semaforo qualche centinaio di metri più avanti. E ancora un volta riusciamo ad avanzare appena di qualche macchina. La situazione si protrae per altri dieci minuti, fino a quando raggiungiamo finalmente l’incrocio che promette accesso all’adiacente autostrada.

La macchina davanti decide di ignorarlo e procede diritta.

“Ma perché non gira?” mugugna Stallman, alzando le braccia al cielo in segno di frustrazione. “È incredibile!”

Decido anch’io di ignorare la situazione. Mi pare già altrettanto incredibile il fatto di trovarmi a Maui, in un’autovettura guidata da Stallman. Fino a due ore prima non sapevo neppure che sapesse guidare. Adesso, ascoltando un pezzo di musica folk, con le note basse di un violoncello emesse dallo stereo della macchina e osservando il tramonto alla nostra sinistra, faccio del mio meglio per sprofondare nel sedile.

Quando finalmente si presenta un’altra opportunità per girare, Stallman mette la freccia a destra tentando di attirare l’attenzione della macchina davanti. Niente da fare. Ancora una volta superiamo lentamente l’incrocio, per poi bloccarci a quattrocento metri buoni dal semaforo successivo. A questo punto Stallman diventa livido di rabbia.

“Sembra che abbia deliberatamente deciso di ignorarci”, sbotta, gesticolando furiosamente come l’addetto all’atterraggio di un aereo, nel vano tentativo di richiamare l’attenzione della nostra guida. La quale non si scompone minimamente, e per i cinque minuti successivi tutto quello che riusciamo a vedere è una piccola porzione del suo volto nello specchietto retrovisore.

Guardo fuori dal finestrino di Stallman. Le vicine isole Kahoolawe e Lanai fanno da cornice ideale per il calar del sole. Una vista mozzafiato, di quelle che consentono ai locali di sopportare meglio momenti simili, credo. Tento di spostare verso quel panorama l’attenzione di Stallman, ma non mi dà retta, ossessionato com’è dalla disattenzione dell’autista davanti.

Quando questo supera l’ennesimo semaforo verde, disinteressandosi del cartello “Pilani Highway” sulla destra, mi trovo a digrignare i denti. Mi viene in mente un avvertimento che mi aveva dato tempo addietro Keith Bostic, programmatore del BSD. “Stallman non può sopportare le stupidate. Se una persona fa o dice qualcosa di stupido, non ci pensa due volte a guardarla dritto negli occhi e dichiarare, ‘È una cretinata’.”

Osservando l’ignaro autista che ci precede, mi rendo come sia proprio quella stupidità, non tanto la circostanza poco simpatica, a far dannare in quel momento Stallman.

“Sembra che abbia scelto la strada senza assolutamente pensare al modo più efficiente per arrivare a destinazione”, insiste Stallman.

La parola “efficiente” rimane nell’aria come un cattivo odore. Sono poche le cose che irritano la mente hacker più dell’inefficienza. Fu l’inefficienza di dover andare a verificare di persona due o tre volte al giorno la stampante laser della Xerox che spinse Stallman a occuparsi una prima volta del suo codice. Fu l’inefficienza di dover riscrivere programmi contrabbandati dai rivenditori di software commerciale che lo convinsero a opporsi alla Symbolics e a lanciare il progetto GNU. Se l’inferno sono gli altri, come opinò una volta Jean Paul Sartre, l’inferno hacker sta nella duplicazione degli stupidi errori altrui, e non è esagerato affermare che l’intera esistenza di Stallman è stata un tentativo di salvare l’umanità da simili abissi infuocati.

La metafora dell’inferno appare ancora più appropriata mentre attraversiamo lentamente la scena locale. Con quella moltitudine di negozi, parcheggi e semafori non coordinati, più che a una città Kihei assomiglia a un enorme software mal progettato. Invece di dirigere il traffico e distribuire il flusso di veicoli lungo strade laterali e tangenziali, i pianificatori cittadini hanno deciso di far transitare tutti i veicoli lungo un’unica arteria principale. Dal punto di vista dell’hacker, starsene seduti in macchina in mezzo a quella gran confusione è come ascoltare un CD a tutto volume che riproduca lo stridio delle unghie su una lavagna.

“Sono i sistemi imperfetti a far infuriare gli hacker”, osserva Steven Levy, un’ulteriore affermazione a cui avrei dovuto prestare orecchio prima di salire in macchina con Stallman. “È questa una delle ragioni per cui in genere gli hacker detestano guidare -- quell’insieme mal programmato di semafori rossi e di assurdi sensi unici provoca ritardi così dannatamente inutili da suscitare l’impulso di riorganizzare la segnaletica, aprire le scatole di controllo dei semafori... ridisegnare l’intero sistema.”[125]

Ancor più frustrante appare tuttavia l’atteggiamento incerto del nostro fidato accompagnatore. Anziché tentare qualche rapida scorciatoia -- come avrebbe istintivamente fatto un vero hacker -- l’autista che ci precede ha invece deciso di rispettare le regole del gioco volute da chi ha pianificato la città. Come Virgilio nell’Inferno dantesco, la nostra guida è ben decisa a offrirci una visita completa di questo inferno hacker, che lo vogliamo o no.

Prima di poter riferire l’osservazione a Stallman, ecco finalmente che la macchina davanti mette la freccia a destra. Le spalle ingobbite di Stallman si rilassano un po’, e per un attimo la tensione sparisce. Per tornare subito dopo, quando la macchina rallenta. Ai lati della carreggiata compaiono dei cartelli con la scritta “lavori in corso”, e anche se la Pilani Highway si trova a poche centinaia di metri, la strada a due corsie che ci separa dall’imbocco autostradale è bloccata da un bulldozer a riposo e da due grandi cumuli di terra.

Ci vuole qualche secondo prima che Stallman si renda conto di quanto accade, mentre la nostra guida inizia a compiere una serie di ardue manovre per fare la conversione a U. Quando anche Stallman si accorge del bulldozer e subito dietro della segnaletica che avvisa “Strada chiusa”, non riesce più a trattenersi.

“Perché, perché, perché?” inizia a lamentarsi gettando all’indietro la testa. “Avresti dovuto saperlo che la strada era bloccata. Avresti dovuto sapere che di qua non si passava. L’hai fatto apposta!”

L’autista davanti conclude la manovra e ci passa di fianco, tornando indietro sulla strada principale, mentre scuote la testa chiedendoci scusa con una scrollata di spalle. Assieme a un sorriso appena abbozzato, il gesto rivela un po’ della frustrazione tipica di chi vive sulla terraferma, mitigato però dalla protettiva dose di fatalismo di chi è abituato vivere su quell’isola. Passando vicino al finestrino chiuso della nostra macchina a noleggio, lancia una rapida battuta: “Siamo a Maui, che ci vuoi fare?”

A quel punto Stallman perde le staffe.

“Non c’è niente da ridere” urla, sbuffando sul finestrino. “È solo colpa tua. Sarebbe stato tutto molto più semplice se avessimo fatto a modo mio.”

Stallman sottolinea le parole “a modo mio” aggrappandosi al volante e chinandosi su di esso due volte. Sembra un bambino che ha un attacco d’ira in macchina, come sottolinea ulteriormente il tono della voce. A metà tra la rabbia e l’angoscia, sembra sul punto di scoppiare in lacrime.

Fortunatamente si trattiene. Come un acquazzone estivo, l’attacco d’ira finisce rapidamente come era iniziato. Dopo qualche altro sospiro, Stallman mette la retromarcia e inizia la manovra di conversione. Non appena riprendiamo la strada, il suo volto torna a farsi impassibile come quando abbiamo lasciato l’albergo mezz’ora prima.

In meno di cinque minuti raggiungiamo l’incrocio successivo. Da qui imbocchiamo facilmente l’autostrada e in pochi secondi viaggiamo verso Pa’ia a una velocità ragionevole. Il sole che poco prima appariva giallo e brillante sopra la spalla sinistra di Stallman ora brucia di un bel rosso-arancione nello specchietto retrovisore, inondando del suo colore le due file di alberi locali disposti lungo i lati dell’autostrada.

Per i successivi venti minuti, oltre al mormorio del motore e delle gomme sull’asfalto, in macchina si sente soltanto la musica di un trio di violini e violoncelli che si cimenta nelle dolenti melodie di un motivo folk dei Monti Appalachi.



[125] Si veda Steven Levy, Hackers, Penguin USA, 1984, p. 40.


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